Epidemic Records: l’importanza del rapporto umano

Ho scoperto la Epidemic Records una decina di anni fa, grazie ad alcune co-produzioni e a un paio di 7” ricevuti per recensioni, da lì è nata la curiosità di saperne di più e la voglia di seguire da vicino l’attività dell’etichetta. Negli anni, io e Gab siamo sempre rimasti in contatto e siamo anche riusciti a scambiare quattro chiacchiere dal vivo in occasione di concerti e festival in giro per l’Italia. Proprio questa opportunità di seguire l’evoluzione della sua creatura e di ricevere informazioni di prima mano ha rafforzato la mia stima per l’operato di un uomo che continua a mantenere lo stesso spirito appassionato e gli stessi valori che sin dall’inizio hanno permeato le scelte e le traiettorie del suo percorso musicale, sia negli Smashrooms, sia in solitaria come Gab De La Vega, ma anche con la Epidemic Records di cui appunto oggi vi parliamo.

Ciò che mi ha colpito sin dai nostri primi contatti sono state l’estrema disponibilità e gentilezza di una persona oltremodo pacata che, al contempo, riesce a portare avanti in modo tanto determinato e diremmo ostinato le proprie idee e la propria visione contro-corrente su molti aspetti rilevanti dell’esistenza umana. Un atteggiamento che ho sempre trovato ben più efficace degli slogan urlati meccanicamente e perfettamente in linea con i discorsi portati avanti in tema di diritti e libertà civili.

Un altro aspetto che ha sempre contraddistinto la label è il non rinchiudersi in un ghetto stilistico, con la scelta di band spesso distanti come linguaggio prescelto, seppure in qualche modo accomunate da una visione d’insieme affine. Proprio questa ricerca di una propria “linea” ben definita senza rinunciare alla possibilità di far uscire dischi estremamente diversi, questa attitudine open minded che ha segnato l’intero percorso di Epidemic senza per questo alienarle la simpatia e il rispetto dei giri più ortodossi, ha fatto di quest’etichetta un esempio perfetto di come ci si possa aprire al mondo senza perdere di vista i propri ideali e le proprie priorità. Un po’ quello che è accaduto con la scelta di abbracciare le nuove possibilità della rete e di cercare un rapporto proficuo con le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, ancora una volta senza abbandonare la strada tracciata, semmai sfruttandole per rinforzarla ancora di più.

Di tutto questo ho parlato con Gab nella lunga chiacchierata che segue, ma prima di lasciargli la parola, vediamo di fare un breve riassunto delle uscite più recenti. 

Epidemic records in pillole

DISAVOW, Half Empty

Formatisi dall’incontro tra membri di Anchor, Gust, Murderofcrows, Oak e Painted Wolves, gli svedesi Disavow propongono un mix letale di hardcore potente e atmosfere oscure, parti rallentate e sfuriate in your face, il tutto con una sapiente alternanza tra vecchia scuola e soluzioni più attuali che conferisce personalità al risultato finale e non fa rimpiangere il tempo speso. Ciò che colpisce maggiormente è la cupezza del tutto, quasi una cappa di cattiveria repressa e rancore malcelato che stemperano l’attitudine anthemica dei brani e donano una veste meno conviviale anche alle parti accelerate, un tratto che in alcuni momenti riporta alla mente gli Integrity per quell’aura luciferina che sovrasta ogni riff. Da segnalare due ospiti alla voce, Derek Archambault (Defeater, su “Sick”) e Fredrik Larzon (Millencolin, su “No Devotion”). A questo punto, siamo curiosi di vederli all’opera sulla lunga distanza. 

GAB DE LA VEGA, I Want Nothing 

Ritorno per il progetto solista dello stesso Gab De La Vega, qui alle prese con il suo primo brano a più mani, visto che ha deciso di servirsi dell’apporto di Marco “Cello” Cellini alla batteria (The Smashrooms) e Simone Piccinelli. “I Want Nothing” non delude le aspettative e permette di portare a casa il risultato anche con l’assetto da band, grazie inoltre al suo piglio contagioso, che – pur senza tradire quanto fatto in precedenza – ci offre una prospettiva differente sull’universo sonoro di Gab. Sul lato B, una cover acustica di “Some Kinda Hate” dei Misfits stupisce per l’umore malinconico e vintage con cui viene rivisitato uno dei cavalli di battaglia della band di Lodi (NJ), armonica springsteeniana inclusa. Colpito e affondato. 

MY TURN, S/t 

Hardcore pestone dalla Grecia, anthem che colpiscono al primo ascolto grazie all’alternarsi di parti veloci e stacchi ricchi di groove, cori da indice alzato e rimandi alla lezione dei cugini americani. Nulla di nuovo sotto il sole, ma anche una dichiarazione d’amore che sa farsi apprezzare per la passione che trasuda dai solchi di un disco rivolto agli amanti dell’hardcore più ortodosso. La band ha una solida reputazione costruita dal vivo e riesce a imprimere alla sua scrittura la street credibility necessaria per portare avanti un simile linguaggio senza risultare fuori tempo massimo. La potenza dei suoni e la padronanza della grammatica di riferimento fanno il resto e permettono ai My Turn di assicurarsi il risultato senza fatica. 

NINE ELEVEN, Sentinels 

Dalla Grecia alla Francia senza passare per il via. Rispetto ai compagni d’etichetta, i Nine Eleven propongono una formula eretica al cui interno si incrociano differenti stili e si avverte forte l’influenza della scuola screamo e delle sue melodie ricche di malinconia. Inutile sottolineare come qui a farla da padrone non siano tanto la potenza e la velocità, quanto la capacità di toccare corde profonde e di coinvolgere emotivamente l’ascoltatore. Non mancano, comunque, le necessarie accelerazioni in un turbine emotivo che conferisce al disco un sapore decisamente personale. Di sicuro un grosso passo in avanti per la band che avevamo già conosciuto grazie al debutto Use Your Disillusion e che aveva mostrato la voglia di ampliare i propri orizzonti a partire dal successivo City Of Quartz. Fa piacere osservare come quelle intuizioni abbiano avuto il tempo di prender forma compiuta e raggiungere la propria piena maturazione in questo Sentinels, davvero consigliato a tutti gli amanti del genere. 

REGARDE, Leavers 

Primo full length per la band di Vicenza, possibile grazie a questa co-produzione tra Epidemic, Wiretap Records e V4V. Quella dei Regarde è una proposta di difficile catalogazione, che unisce vari linguaggi all’interno di una formula a cavallo tra emo, punk rock, indie e alternative, il tutto senza mai scadere in piacionerie di bassa lega o colpi da fenomeni del pop. Leavers è un disco poetico ma non stucchevole, ricorda gli umori di certo “emo-indie” anni Novanta e anche per questo assume un connotato nostalgico, un retrogusto da ricordo che va a pizzicare corde sensibili nella maniera giusta. Fa piacere notare come certe sensazioni possano ancora essere associate a una band che sa come utilizzarle a meglio e non ci fa storcere il naso dopo i primi tre minuti. Al contrario, Leavers riesce a conquistare e a dirla tutta si conquista diversi giri sul piatto. Un ottimo esempio di come la Epidemic riesca a coprire stili e linguaggi a dir poco distanti, senza perdere mai una visione d’insieme che riesca a far convivere gruppi apparentemente antitetici.

WILD ANIMALS, Basements: Music To Fight Hypocrisy 

Power trio originario di Madrid, i Wild Animals sanno creare brani che entrano in mente sin dal primo ascolto e flirtano con il punk rock senza cadere negli stereotipi del genere, anzi, verrebbe da dire che spesso appare più semplice parlarne come di power-pop per l’irresistibile vena di leggerezza che traspare nella scrittura. Nulla a che vedere, ovviamente, con il pop punk, siamo piuttosto dalle parti delle college-radio, della vena ipnagogica di suoni che rimandano a ricordi di estati e scorribande notturne al netto della retorica adolescenziale che marchia chi fa queste cose per acchiappare consensi. I Wild Animals dimostrano una smaccata genuinità e un piglio che coinvolge sin dalle prime note, oltretutto hanno dalla loro una scrittura varia e personale che riesce a mantenere alta l’attenzione e tiene lontana la noia. L’attitudine diy e consapevole che permea la band aggiunge la spezia che può fare la differenza in questi casi. Esotici.

Di Epidemic abbiamo recensito anche lo split tra Discomfort e False Light, Carnis Tempora: Abyssus dei Lamantide, Ghost dei Left In Ruins, Drama degli Ornaments, l’omonimo dei Painted Wolves, Sold Souls dei Raindance, Wildfire degli Smashrooms, Monument degli Zeit. 

Intervista a Gab De La Vega

Cominciamo dal come è nata la tua passione per la musica e da quale è il tuo background come ascoltatore e musicista. Ricordi quando hai capito che ascoltare dischi non ti bastava più e cosa ti ha spinto a voler diventare parte attiva come musicista? 

Gab: Sin da bambino ho ascoltato sempre tanta musica. Tutti i generi, o quasi. Ero curioso di conoscere nuove forme di espressione e nuove sonorità. Poi è arrivato il punk e tutto è cambiato. La prima volta che ho sentito quel suono, così potente, mi sono sentito come mai prima. Finalmente una musica che riusciva a esprimere ciò che sentivo dentro! Volevo provare anche io. La mia preparazione da musicista era però sulla tastiera di un pianoforte, strumento decisamente non adatto a quel mondo di chitarre distorte e batterie martellanti. Così provai, da autodidatta, a imparare qualcosa di semplice, usando uno strumento a corde. Suonare la chitarra mi piaceva, e finalmente trovai il modo di usare quei pochi accordi che conoscevo per scrivere qualcosa di mio. 

Cosa ti ha spinto a creare una tua etichetta e quali sono stati i primi passi nel mondo discografico? 

Mi resi conto subito che il punk non era un genere musicale come gli altri. Le band punk, anche quelle più grosse, non erano state ad aspettare la manna dal cielo. Erano partite tutte nei garage, negli scantinati, nei piccoli contesti, spesso un po’ sgangherati. Ero adolescente durante il revival punk degli anni Novanta, quindi alcune di esse erano davvero grosse all’epoca. Eppure sapevo da dove venivano. I primi dischi trasudavano ancora quell’odore di basement. Pensai che quella fosse la strada da seguire. Gli altri gruppi dei miei compagni di scuola aspettavano, speravano in un aiuto dall’alto. Io invece iniziai a muovermi, a conoscere altre band affini, con la stessa visione, persone attive e volonterose. Forse non sarei stato in grado di chiamarlo così, ma cos’altro era se non l’embrione di un approccio Do It Yourself alla musica?
Formata la mia prima band (The Smashrooms, che con vari cambi, mi ha accompagnato per diversi anni!), decisi che il disco sarebbe uscito sulla mia etichetta, che chiamai Epidemic Records.
Ovviamente non sapevo nulla sul da farsi. Dopo un po’ capii che avrei potuto far girare il disco della mia band collaborando con altre persone che stavano facendo la stessa cosa. E che se questa cosa avesse funzionato per noi, forse avrei potuto aiutare anche altre band di amici e persone affini.

E quindi via così, verso l’ignoto… Imparando giorno per giorno cose nuove! 

Se non erro, l’aspetto sonoro non è l’unica cosa che ti muove, ma si sposa con un’etica abbastanza marcata e un legame saldo con una certa scena/mentalità diy che delinea le tue uscite. 

Penso che si possa ridurre tutto a un semplice concetto: l’importanza del rapporto umano. Certo, la musica è importantissima, deve piacermi, deve essere qualcosa nella quale valga la pena investire tempo, soldi, fatica, impegno. Se in passato mi è capitato di aiutare qualche band in quanto amica (anche se non ero convinto dalla musica), ora cerco di essere molto più critico e mettere alla prova anche questo aspetto. Ovviamente la situazione migliore si verifica quando la band fa bella musica ed è fatta da persone con le quali mi trovo bene anche dal punto di vista umano. Ma se una band è composta da persone con le quali condivido lo spirito, l’intenzione, le visioni, sicuramente tutto ha un sapore e un valore diverso. Il Do It Yourself andrebbe in questo caso forse chiamato “Do It Together”. Ogni uscita è un’avventura da intraprendere insieme. Mi piace lavorare in maniera seria e impegnarmi il più possibile quando si parla di Epidemic Records. Però il mio background, così come la spina dorsale della mia etichetta, sono costituiti da ciò che ho imparato negli anni, grazie al DIY. Quindi sicuramente devono esserci dei valori e dei princìpi dietro ad ogni scelta. Per alcune persone il DIY significa fare le cose “un po’ così, come viene, viene”… Significa fare dischi di qualità inferiore perché i mezzi sono minori. Oggi, nel 2018, questo approccio mi sembra deleterio. Con le possibilità che ci sono oggi, con il mondo che si è aperto grazie alle nuove tecnologie (che consentono registrazioni valide anche in contesti più o meno casalinghi) e internet, Do It Yourself significa per me fare le cose nel migliore dei modi, cercando di creare una vera e valida alternativa alla musica mainstream. Se si parte mirando in basso, si perde in partenza. Allora è ovvio che nessuno o quasi ci ascolterà. Ma se si fa di tutto per proporre musica di qualità, dischi di qualità (e anche live di qualità!), allora potrebbe essere possibile che qualcuno che prima non ci avrebbe mai calcolato si interessi e si appassioni alla nostra musica. E magari apprezzerà e coglierà il messaggio, lo spirito, l’intento di tutto ciò. Saremo sempre una nicchia, ma limitarci o ancor peggio, essere autoreferenziali, non può portare nulla di buono. Senza riuscire a guadagnare seguito, ascoltatori, attenzione, pubblico, le band si stancano di spendere soldi (quanto costa suonare!), le etichette non ne possono più di andare in perdita, i posti dove fanno concerti chiudono o si dedicano ad altro… 

Quali credi siano gli aspetti più importanti per rendere efficace e duraturo il rapporto tra band e label? 

Sincerità, comprensione, pazienza, tenacia e volontà di creare qualcosa di bello insieme.
La band deve capire che non si sta interfacciando con una major, in termini di struttura, capacità ma anche (fortunatamente, per il bene di tutti) pretese. Al massimo possono esserci delle legittime “necessità” di garanzia: la capacità della band di sapersi organizzare e gestire autonomamente, di poter suonare un certo numero di concerti in un anno, di essere stabile e non sciogliersi appena uscito il disco… di saper insomma fare la propria parte. Allo stesso modo l’etichetta deve capire il suo ruolo, fornire supporto alla band secondo i propri mezzi, diffonderne la musica, farne conoscere il valore e in qualche modo “garantire” per il gruppo, cercando di spingerlo il più possibile tra i mille gruppi, più o meno validi, che esistono oggigiorno.

Animalismo, anti-specismo, lotta ad ogni forma di fascismo o xenofobia od omofobia… sbaglio nel sottolineare questi aspetti come linee guida ideologiche per descrivere la tua attitudine anche come label?

Non parlerei di ideologia ma di carattere. Essendo l’etichetta un’emanazione della mia persona e personalità, trovo quasi spontaneo pensare che queste posizioni si riflettano anche su Epidemic Records. Non limito le uscite a soli gruppi antispecisti – animalisti – vegani (anche perché, diciamocelo, farei uscire due dischi in cinque anni!), nonostante siao tematiche che mi stanno a cuore e quando una band le abbraccia ne sono felice. Invece non farò mai uscire gruppi che non siano antifascisti, contro ogni forma di discriminazione. Su questo non transigo. Spazio ai fascisti non va mai concesso e la xenofobia, il razzismo o l’omotransfobia non appartengono (o meglio, non dovrebbero affatto appartenere) al punk e all’hardcore. Chi ha un’opinione diversa rispetto a questa in merito a queste tematiche può tranquillamente cercare il sostegno di altre etichette magari, anche se fosse la band più valida del mondo. 

Quanti di questi ideali credi siano ancora rappresentativi dell’attuale scena hardcore punk e cosa invece si è perso negli anni? 

Dipende da quale strato della scena hardcore analizziamo. La scena non è una massa unica, coesa, ma forse più un qualcosa di stratificato, con punti di contatto, intersezioni più o meno sporadiche e distanze a volte incolmabili. Negli ambienti più vicini ai centri sociali sicuramente alcune tematiche sono più sentite, mentre in altri decisamente meno.

L’anti-specismo è forse meno radicato rispetto a diversi anni fa, anche se paradossalmente forse ora ci sono più persone vegane all’interno del circuito hardcore punk (ma forse più ad un livello di scelte alimentari che posizioni socio-politiche). Mi spiego: è più facile trovare cibo vegan ai concerti ma meno banchetti informativi. Anche se ovviamente non possiamo generalizzare, dipende tutto da che tipo di concerto stiamo considerando.

In quanto ad antifascismo, lotta alla xenofobia e all’omotransfobia: a volte bisognerebbe essere un pochino più incisivi, senza paura di prendere una posizione, soprattutto per i tempi che corriamo. Ma tutto sommato, possiamo dire che le idee sono abbastanza chiare. Forse andrebbe presa più in considerazione la relazione tra l’hardcore punk (ma forse la musica in generale!) e le donne. Lo ritengo ancora un ambiente troppo maschile, dove le donne hanno pochi spazi di espressione e sono spesso viste da alcune persone come “la ragazza di qualcuno” e non come un’individualità attiva, con una sua personalità e presenza propria. Vorrei vedere più donne coinvolte, sul palco, sotto al palco, nel far uscire dischi, nello scrivere fanzine o webzine, nel promuovere concerti. Quelle che ci sono e che conosco posso dire che siano delle grandi. Fanno mille cose e le fanno molto bene. Spero che ci sia sempre più consapevolezza in merito e più spazio e partecipazione per le donne, così come nel punk e nell’hardcore, un po’ in tutto il mondo della musica. 

Sul piano musicale, cosa ti attrae e cosa invece proprio ti tiene lontano ne momento dello scegliere una band? C’è qualche linguaggio che, anche in presenza di una sintonia sui principi/valori, proprio non vedresti bene su Epidemic Records? 

Se parliamo di musica, mi piace pensare di proporre qualcosa di qualità. Che poi piaccia o meno, quello è soggettivo. Come forse avrete notato, Epidemic Records si muove abbastanza in termini di sonorità. Non pubblica solo gruppi punk rock, solo gruppi hardcore new school, solo gruppi powerviolence o solo gruppi post-hardcore. Al contrario, mi piace spaziare, trovare un filo conduttore che accomuni uscite che rimangono sempre nello stesso grande ambito, ma che non siano settarie per forza. Così è possibile che escano i Discomfort e i Regarde, gli Ornaments e i Disavow, gli Zeit e Gab De La Vega, i My Turn e i Wild Animals…. e così via.
Non mi precludo niente, ma deve esserci sempre un certo filo conduttore. Quel filo conduttore è poi ciò che definisce Epidemic Records. Certe cose sono inevitabilmente troppo lontane da esso, quindi è difficile considerare certe sonorità o linguaggi musicali. Ma sono una persona di mentalità abbastanza aperta… non si sa mai! 

Gab coi Regarde al loro release show.

Da un punto di vista di una label come la tua, quanto ha inciso il cosiddetto ritorno del vinile e l’eterna lotta tra formato fisico e digitale? 

Sicuramente il ritorno del vinile ha avuto un impatto notevole su tutta la faccenda, indirizzando i vari sforzi di chi come me dà il suo contributo per far uscire i dischi. Il vinile è un formato affascinante, sebbene sia inevitabilmente meno pratico di altri, quali il cd o il digitale. Ma a livello di fisicità, è quello che ti consente di creare qualcosa di più unico, bello e desiderabile anche solo come oggetto, oltre che come supporto musicale.

Il formato digitale è senza dubbio il più diffuso tra chi ascolta musica. Soprattutto oggi, con dispositivi come smartphone e tablet, lo streaming la fa da padrone. Con forse qualche ritardo, ma ho imparato a capire anche questo mondo in totale espansione e in continuo movimento. Tutte le uscite Epidemic Records sono infatti disponibili anche in formato digitale, per streaming e download, su tutte le principali piattaforme. Penso che oggi sia necessario essere presenti su quante più “piazze virtuali” possibili, per poter intercettare le persone che si affidano ad esse per i propri ascolti. 

Cosa ne pensi delle varie piattaforme per diffondere la musica in formato digitale come Bandcamp, Spotify, Soundcloud (…)?

Sono fondamentali in questo momento. Molte persone utilizzano queste piattaforme, sia chi sta dentro che chi sta fuori dalla nicchia della cosiddetta “scena”. È un modo per agevolare l’ascolto di chi ci conosce e allo stesso tempo presentarci a nuovi ascoltatori. Pensare di rendere disponibile un disco solo in vinile senza poter dare la possibilità a chi ascolta musica grazie ad internet di poterlo sentire, vuol dire limitare enormemente il potenziale di quell’album, a discapito della band e anche di chi l’ha fatto uscire. Avere più ascoltatori, su più fronti, non può essere mai tradursi in qualcosa di negativo. 

Quali programmi hai per i prossimi mesi? C’è qualche band che punti da un po’?

Ci sono già delle uscite annunciate, che saranno disponibili a breve per i preorder. La Armada, band originaria di Santo Domingo ma da anni trapiantata a Chicago, città dove vive una florida comunità di latinos (basti pensare ai Los Crudos). Sono una band formidabile, con tour per il Nord, Centro e Sud America, oltre che per l’Europa (dove torneranno presto!). Al momento sono in giro con i Propagandhi! Il loro disco, Anti-Colonial Vol.1, uscirà in Europa per Epidemic Records. Una vera bomba, un crossover hardcore, punk e metal nei cui testi rivediamo una feroce e doverosa critica all’America di Trump e al mondo in cui viviamo, senza mai cadere nella retorica, anzi: proponendo spunti di riflessione a volte poco considerati. Qui c’è il videoclip di “Fire”.


Poi, annuncio di pochi giorni fa, si rinnova la collaborazione coi Discomfort. Band divisa tra Venezia e Londra, ma molto attiva sia in Europa che negli Stati Uniti (per ben due volte). Il nuovo disco Fear è una cosa impressionante, una belva feroce nei suoni e negli intenti e non vedo l’ora di svelarlo ai vecchi così come ai nuovi e futuri fan di questa band.

Ci sono altre due band in uscita, una dalla Svezia e una dalla Spagna… annuncerò tutto a breve. Per cui vi invito a seguire epidemicrecords.net oppure i vari social network (Facebook, Instagram, Twitter). Sono davvero contento per queste uscite. Il 2018 si prospetta essere una bella annata sotto questo punto di vista!

Per il resto… Cercherò di migliorare ulteriormente il discorso distribuzione. Non avendo un distributore vero e proprio, ma gestendo tutto direttamente, a volte si fa un po’ fatica. Ma al momento, non c’è altro modo. Riesco comunque a rendere disponibili i miei titoli in vari Paesi e allo stesso tempo, rendere disponibili in Italia molte uscite di altre etichette italiane e non tramite l’E-store Epidemic Records. Anche su quel versante, spero di poter rendere il catalogo sempre più ricco e consentire a chi cerca dischi di poterli acquistare dall’Italia, risparmiando non poco sulle spedizioni.

Poi ci sono altre idee e altri progetti… ma non voglio annoiarvi!