EMEKA OGBOH, 6°30’33.372”N 3°22’0.66”E

Il secondo, doppio album dell’artista multimediale/musicista nigeriano, residente a Berlino, Emeka Ogboh (Lagos, 1977), esce per la sua neonata etichetta Danfotronics. Già nel 2021 Ogboh ha fatto drizzare le antenne alla critica e al pubblico più attenti con un lavoro di rielaborazione del suono ambientale della sua Lagos e pattern elettronici originali: intitolato Beyond The Yellow Haze, è uscito per A-Ton, emanazione di Ostgut Ton, quindi del Berghain. Proprio la chiusura di questo tempio berlinese dell’intrattenimento durante i due anni della pandemia, determinando la sua trasformazione per alcuni mesi in centro espositivo denominato “Studio Berlin”, ha dato ad Ogboh l’opportunità di esporre alcune sue installazioni immerse fra l’altro nelle composizioni tratte da Beyond The Yellow Haze e la recente “Ayilara” e di catturare l’attenzione su larga scala dei media tedeschi.

Oggi giunge questo magnifico nuovo disco, che per titolo ha latitudine e longitudine di Ojuelegba, quartiere teatro della grande stazione dei Bus della capitale nigeriana Lagos e di tutto quello che ci gira intorno, a cui già Fela Kuti nel 1975 con “Confusion” dedicò uno dei suoi brani più sperimentali. Qui dunque entriamo nel cuore del progetto, pensato per condurci tutti al centro di quel mondo sonico e di quell’umanità, un mondo in movimento senza sosta giorno e notte, animato da passeggeri, driver, animali, prostitute, traffico, sinfonie di clacson, caos, risate di bambini, lingue sconosciute, commercio e trattative, slang inglese, voci e richiami in lontananza, il tutto incorniciato da drone elettronici ritmici che richiamano tanto la potente estetica poliritmica di – appunto – Fela Kuti, quanto i ritmi spezzati di Remain In Light, ma completamente destrutturati e dilatati.

Ojuelegba è anche il sito di un antico tempio Yoruba dedicato a Eshu, divinità dell’estasi attraverso la danza, suggestione questa che accresce l’aspetto dionisiaco di pezzi come “Wole”, “Verbal Drift”, “We Die Hia”, “No Countfeit”, mentre altrove, come in “Ayilara” (la zona della prostituzione) o nei nove minuti di “Oju 2.0” è l’incredibile field-recording o meglio traffic-city recording che deliberatamente prende il sopravvento con strati sonori sovrapposti e discussioni in Yoruba e in Pidgin (sorta di creolo nigeriano) dei conducenti dei bus collettivi, i gialli VW Denfo, in attesa della partenza per trasportare fin nei più remoti villaggi una moltitudine di persone e allo stesso tempo anche noi in una dimensione “altra” abbastanza sconvolgente, facendoci sentire partecipi di una realtà sonora che dunque rivela di sé anche tutto ciò che la precede!

Siamo ad Ojuelegba Surulere, Lagos: i suoni che Emeka Ogboh ci offre provengono dalla caotica realtà di un Koyaanisquatsi – il più che premonitore documentario del 1982 di Godfrey Reggio, musiche di Philip Glass al suo apice creativo – girato questa volta in Africa, ma di cui siamo comunque parte anche noi. Un’anarchia a tratti spaventosa, sì, è vero, ma tanto avvolgente quanto affascinante, trattata da qualcuno che si rivela un punto di riferimento per la nuova scena elettronica, capace di una ricerca artistica – il prestigioso VANLagos (VideoArtNetwork Lagos) è una sua creatura – feconda di nuove possibilità. Stay tuned.