Due dischi Hyperdub: Angel-Ho e Mana

Hyperdub nasce nel 2001 come webzine dedicata alla bass culture inglese, ed è fortemente connessa all’esperienza della CCRU (Cybernetic Culture Research Unit), di cui il fondatore, Steve Goodman, era parte integrante. Poi diventa una serata con sede a Brixton, denominata “Hyperdub 130” (dal numero di bpm attorno al quale si aggiravano i pezzi che venivano passati) e solo nel 2004 comincia a sfornare dischi:  Kode9 (il nom de guerre di Steve), Burial e The Bug sono i primi nomi della lista, il resto è storia, quella di un’etichetta che da dubstep e garage ha cominciato a muoversi in svariate direzioni, alla ricerca continua del suono della contemporaneità, attraverso le sue molteplici declinazioni e sfumature. Stavolta abbiamo messo le orecchie su due dischi molto differenti fra loro, ma che condividono un’attitudine simile e rispecchiano entrambi, in qualche maniera, la politica aziendale di Hyperdub.

Angel-Ho, musicista transgender sudafricano, è – insieme a Chino Amobi e Nkisi – fra i fondatori di NON Worldwide, collettivo che prende le mosse dalla diaspora nera per farsi voce delle comunità marginalizzate diffuse sul globo. Angel-Ho mette per la prima volta al centro del proprio discorso musicale la voce, la sua e quella di altri: difficile, in questo senso, non accomunare il suo percorso a quello di Arca, con cui il musicista ha pure collaborato in passato. Death Becomes Her è un disco esuberante e, per molti versi, eccessivo: dai suoni abrasivi del suo precedente lp, Red Devil, uscito proprio per NON, Angel-Ho perviene a un pop virato hi tech che non rinuncia mai ad ammiccare, a essere suadente e strabordante nello stesso tempo, conservando quella patina traslucida che lo lega alle altre uscite della label di Goodman. Il disco è una riuscita mistura di gqom, hip hop, rnb e ritmi caraibici, in cui si sgranano i nomi delle griffe come in un rosario fashionista (“Business”) o si ostentano, senza pudore, citazioni che più pop non si può (Bee Gees e Duran Duran in “Live”). Nutrita la carovana dei collaboratori: Gaika e Asmara degli Nguzunguzu, fra i tanti, assieme alle voci della rapper filippina K-Rizz e dei sudafricani Qweezy e K-$.

Comunque accostabile a una grammatica hi tech, il disco del torinese Daniele Mana rivela un carattere introspettivo e crepuscolare (il moniker Vaghe Stelle, a cui siamo ancora molto affezionati, vorrà pur dire ancora qualcosa…). Autotune e barocchismi postmoderni si abbinano a un piglio sentimentale e quasi malinconico: siamo dalle parti dell’ultimo Oneohtrix Point Never o, negli ammiccamenti alla new age e all’oriente, di Visible Cloaks. Melodie criptate, armonie fuori fuoco (emblematico il titolo “Myopia For The Future”), strati di vernice sonora che si sovrappongono copiosi. Mana utilizza una tavolozza timbrica di notevole entità, con cui raggiunge risultati talora interessanti (quello che nella lunga title-track sembra un sax baritono potrebbe essere benissimo un contrabbasso suonato con l’archetto o nessuna delle due cose) ma che spesso non dimostra di sapere maneggiare con sufficiente sicurezza.