Drone Metal, Khanate e il nuovo disco dei Khanate

Esiste in ognuno di noi un luogo in cui andiamo a nasconderci con la certezza di non essere trovati da nessuno o dove al meglio si viene circondati da altre persone simili. Per alcuni è lo psicologo, lo psichiatra o l’ospedale psichiatrico. Per altri è il bosco o in cima ad una montagna. Per molti è la sala prove, dove ci si chiude un paio di volte la settimana con altri matti per elaborare qualcosa di nuovo e originale o semplicemente per divertirsi suonando le canzoni del cuore. E poi c’è il drone metal. Il drone metal è un rifugio sicuro perché difficilmente su questo ci si trova in sintonia con altre persone. Quanti individui conoscete che ascoltano questo genere? Intendo fra le persone reali che frequentate, non valgono le amicizie virtuali. Io molto poche. Ed è uno dei motivi per cui amo questo stile. Eppure conosco una marea di gente che ascolta generi non meno estremi come hardcore, grind, death metal, black metal. Ma solo una manciata che adorano farsi martoriare il cervello con band come Sunn O))), Earth, Boris, Khanate.

Faccio una breve storia. Negli anni Settanta i Black Sabbath anticipano svariate forme di heavy metal, una delle quali è il doom, variazione potente e lenta che diventerà genere molto tempo dopo. Nei primi anni Ottanta, quando ormai i Black Sabbath sono una roba fuori moda, alcuni ribelli si ispirano a loro per suonare quello che gli piace mescolando elementi diversi. Per esempio mettendo insieme Stooges e Black Sabbath nasce il suono dei Flipper. I Flipper erano il classico gruppo che adoravano quelli strani, cito due nomi: Jello Biafra (Dead Kennedys) e King Buzzo (Melvins). Jello li fa ascoltare ad una vagonata di band sperando che in qualche modo ne vengano influenzate (ci riesce con gli Amebix) mentre i Melvins si trovano a pensare che se andassero più piano, potrebbero suonare hardcore punk facendo incazzare i punk. Quel modo di suonare lento e ribassato, con bordoni chitarristici infiniti suonati a volume indicibile, trova come unici fan i giovani Dylan Carlson (Earth), Kurt Cobain (Nirvana), Greg Anderson (Sunn O))), tutti provenienti dal Nord Ovest americano. Anche in Giappone arrivano i feedback di questa musica e anche un quartetto (poi trio) decide di alzare gli amplificatori al massimo facendosi ispirare da dischi come Bullhead, tanto da chiamarsi come un brano di quel disco: Boris.

Andiamo avanti velocissimi e arriviamo ai primi anni 2000, quando questa musica si trasforma in genere e non è più solo uno sfogo strampalato. Tra i gruppi che si spingono verso l’estremo ci sono i Khanate, quartetto formato da Alan Dubin, James Plotkin, Stephen O’Malley e Tim Wyskida. Alan e James erano negli OLD, una delle tante perle nascoste del catalogo Earache dei primi anni Novanta. Suonavano uno stravagante mix di grindcore, industrial, death metal, talmente avanti che probabilmente non vivremo abbastanza per goderci il momento in cui verranno rivalutati. James ha una discografia così vasta che meriterebbe un libro a sé, un po’ come altri personaggi ultra-prolifici come Kevin Martin, Justin Broadrick e Shane Embury. Negli ultimi vent’anni ha messo le mani su centinaia (non scherzo) di dischi di area post-metal, post-rock, industrial, drone, ambient. Se un disco del genere è bello, probabilmente l’ha masterizzato lui. Come musicista lo segnalo nei Lotus Eaters in compagnia di O’Malley e Aaron Turner (Isis), Khlyst con Runhild Gammelsæter dei Thorr’s Hammer e Jodis con Aaron Turner e Tim Wyskida.

La discografia del suo socio Alan Dubin è decisamente più magra: dopo Old e Khanate ha fondato gli Gnaw con Jamie Sykes (Burning Witch), Carter Thornton (Enon Slaughter) e Jun Mizumachi (Ike Yard). Tim Wyskida è quello relativamente più inesperto dei quattro, ma va assolutamente segnalata la sua presenza nei fondamentali Blind Idiot God al posto del batterista Ted Epstein. Blind Idiot God li conoscete? Magari se siete giusto tra i più pazzi spulciatori delle infinite liste scaruffiane o i più attenti amanti del metal più sbilenco. Sul finire degli anni Ottanta pubblicarono un disco per la SST e un fondamentale album chiamato Undertow, prima che lo stesso nome venisse usato dai Tool, prodotto da Bill Laswell e mixato da Martin Bisi. Il terzo fu direttamente benedetto da sua maestà John Zorn. Ovviamente non se li cagò nessuno in vita, ma cercateli perché il loro mix di metal, grind, dub, jazz è più unico che raro. Vent’anni dopo lo scioglimento si misero in casa Tim Wyskida e pubblicarono Before Ever After che ovviamente passò inosservato e inascoltato come tutte le cose belle di questa terra.

Chi manca? Ah già Stephen O’Malley. Spero non ci sia bisogno di ricordare che è metà del duo Sunn O))) oltre che titolare di centinaia di dischi da solista e in compagnia di altri pazzi.

E ora la recensione del nuovo disco dei Khanate.

Bello come guardare il cielo azzurro, sentire gli uccellini cantare, assaporare la brezza estiva, ascoltare i vicini che fanno il barbecue con ragazze discinte mentre voi siete legati al letto, imbavagliati con un nano pieno di pus che vi tocca ovunque e vi getta olio bollente su tutto il corpo.

Massimo Perasso
Massimo Perasso, amante di grunge, stoner, noise rock e wrestling è il fondatore di Taxi Driver (webmagazine, negozio ed etichetta). Ex bassista degli Isaak, qualche anno fa conduceva il programma radiofonico Fruit Of The Doom. Attualmente lavora da Flamingo Records Store e cura le fanzine cartacee Isterismo e Slerfa (che potete chiedere direttamente a lui). Ha anche una webzine dove pubblica news e approfondimenti musicali chiamata Tomorrow Hit Today, come il disco dei Mudhoney meno ascoltato di tutti.