DORTHIA COTTRELL, Death Folk Country

Non serve raccontare chi è Dorthia Cottrell, dato che qui conosciamo tutti i Windhand, quella band che – scrivevo – con l’ultimo disco Eternal Return ha trovato/ritrovato le corrispondenze segrete tra grunge, doom e psichedelia. Cottrell, quest’anno, ha pubblicato per Relapse il suo secondo disco solista, Death Folk Country. Il primo, che porta solo il suo nome, ha la fede e la devozione della mia cerchia di amici: spoglio ed essenziale, per certi versi primitivo, mette al centro la voce, accompagnata dal minimo strettamente necessario di chitarra acustica e lap steel, più un sitar da qualche parte. Otto anni dopo, con Death Folk Country, Cottrell è sempre asciutta, si fa sempre forza sulla voce, ma ha più strumenti (e aiuti) e prova ad arrangiare di più i pezzi, come gli Earth con The Bees Made Honey In The Lion’s Skull dopo l’irripetibile Hex. Tiro in ballo Dylan Carlson, perché il primo che ricordo quando penso a musicisti di band superpesanti che tornano alle radici e trovano modo di far pace con quel genere che chiamiamo “Americana”, non a caso Dorthia appare in uno dei tre tributi Neurot a Townes Van Zandt, insieme al grande incompreso Nate Hall. Questo è, dal mio punto di vista molto parziale e limitato, dato che non ascolto in modo sistematico queste cose, lo scenario notturno all’interno del quale ci si muove, sotto l’incantesimo del trittico “Harvester” – “Black Canyon” – “Family Annihilator”.

Il disco è uscito su Relapse ed è ok, lo vedo come una buona occasione per iniziare un percorso all’indietro lungo tutti gli altri album che ho citato.