Doom Heart Festival 3.5 Italian Edition, 11/12/2021

Shores Of Null

Paderno Dugnano (MI), Slaughter Club. Le foto sono di Giulia Di Nunno, che ringraziamo.

Il Doom Heart Festival 3.5 si è tenuto allo Slaughter Club di Paderno Dugnano (MI) lo scorso 11 dicembre. La presenza degli Shores of Null in qualità di headliner, ma anche di altre gruppi nel bill, mi ha convinta senza alcuna fatica a esserci: un volo diretto da Helsinki ha facilitato le cose.

Ammetto di avere una maggiore familiarità con tre delle cinque band salite sul palco, ma di solito è un ottimo spunto per lasciarmi sorprendere anche da realtà che conosco poco. Che il doom metal abbia diversi sottogeneri e varie sfaccettature è cosa nota, ed è piacevole constatare come le sue molte “anime” possano convivere in un unico contesto: dal gothic-doom a tratti epico degli Abyssian, alla magistrale esecuzione degli Shores Of Null, che hanno proposto l’ultimo full length nella sua interezza (un monotraccia di 38 minuti sulle cinque fasi del lutto), passando per la raffinata malinconia dei Veil Of Conspiracy, per la virata hawaiiana dei Cambrian, che suonano uno stoner strumentale molto personale, e ancora per il death-doom intenso e ricco di pathos degli Invernoir, l’evento ha soddisfatto chi ama le diverse e peculiari espressioni di questo genere.

Abyssian

Gli Abyssian (Milano) hanno aperto le danze poco dopo le sei e mezza: purtroppo l’affluenza del pubblico era ancora piuttosto bassa per essere un sabato sera nel mezzo di una pandemia (dunque con carenza di concerti). La band, forte di un’ottima presenza scenica, ha suonato perlopiù brani dell’ultimo album, Godly, uscito all’inizio del 2021 su Revalve Records, ma s’è concessa qualche salto nel passato, attingendo anche dall’esordio.

Abyssian

Il loro è un doom dalle tinte scure, nostalgiche, per chi ama Saint Vitus e Cathedral, ma con delle virate dark non indifferenti, che strizzano l’occhio ai mostri sacri degli anni Ottanta, ben al di fuori del metal. Conoscevo gli Abyssian, ma non avevo ancora avuto l’occasione di vederli dal vivo. Seppur intaccata da qualche problema tecnico che ha compromesso in particolare la voce, posso affermare che la loro performance mi ha stupito in positivo, a conferma anche di quanto ho letto in giro a proposito dei due album pubblicati.

Veil Of Conspiracy

Poco dopo è toccato ai Veil Of Conspiracy, dei quali ho recensito l’ultimo album, uscito alla fine della scorsa estate. Non nascondo l’entusiasmo che ho provato nell’assistere a un loro concerto e nemmeno le mie altissime aspettative. Hanno riproposto Echoes Of Winter quasi nella sua interezza, pur non seguendo l’ordine su disco dei brani. Il nuovo bassista, Federico Bardzki, ha dato prova di un’ottima intesa col resto della band e vederlo canticchiare mi ha fatto sorridere: quando la qualità parla da sé, non c’è alcun bisogno di apparire gelidi e distaccati. Preciso e molto competente anche il batterista Davide Fabrizio, giovanissimo e decisamente calato nel suo ruolo.

Veil Of Conspiracy

Emanuela Marino alla chitarra ritmica e alla seconda voce mi ha lasciato a bocca aperta, in particolare quando ha ricoperto il difficile compito che nell’album è toccato a Gogo Melone: il brano in chiusura, “Where Sun Turns To Grey”, infatti, è un duetto tra la cantante di origine greca e Alessandro Sforza, il frontman della band. L’interpretazione di Emanuela, così delicata e potente, ha chiuso alla grande un set già di per sé perfetto. Gli assoli di Luca Gagnoni mi hanno ricordato da vicino quelli di Jeff Loomis ai tempi dei Nevermore: precisione chirurgica, ma esecuzione passionale. Alessandro si è riconfermato uno dei migliori cantanti estremi contemporanei, perché capace di conciliare perizia tecnica e presenza scenica, senza tralasciare la sempre gradita abitudine di fare battute tra un brano e l’altro, coinvolgendo il pubblico e rendendo il clima generale rilassato e familiare.

Cambrian

È stata poi la volta dei Cambrian, interessante quartetto ligure che propone un doom/sludge pesantissimo ma a suo modo autoironico e scanzonato. Birra in mano, ero sotto al palco, e il mio amico ha esclamato: “sembrano gli Sleep alle Hawaii!”. Non avrei saputo dirlo meglio: il concept della band è infatti influenzato da un’estetica hawaiiana, che ha un inevitabile impatto anche a livello sonoro. La lap steel guitar è l’elemento-chiave che conferisce parecchia originalità al tutto, dando un sapore psichedelico all’insieme.

Cambrian

Non conoscevo i Cambrian e, seppur avessi ascoltato qualcosa dal primo album, la resa live è stata così imponente da fornire parecchi elementi in più, lasciandomi piacevolmente sorpresa. Mi sono fatta trasportare da quelle ritmiche lente che evocavano paesaggi tropicali, relax, perdizione… I ragazzi hanno eseguito una setlist ben rappresentativa: qualche brano dal loro primo (e per ora unico) full length e un paio di inediti. L’atmosfera era piacevole e il pubblico partecipe, in attesa di ripiombare in paesaggi ben più cupi con le due band successive.

Invernoir

La penultima band a calcare il palco dello Slaughter Club è stata un quartetto capitolino dedito a un death-doom diretto e lacerante: gli Invernoir, fondati nel 2016, che hanno pubblicato un ottimo album di debutto nell’ottobre del 2020, The Void And The Unbearable Loss, che, a differenza del precedente ep, vedeva il già citato Alessandro Sforza nel ruolo sia di chitarrista che di cantante. Le influenze sono palesi: death-doom inglese e svedese, ma anche i finnici Swallow The Sun e Ghost Brigade, e i nostri Forgotten Tomb.

Invernoir

L’uso originale dello spoken word in italiano da parte del chitarrista Lorenzo Carlini ha avuto una resa davvero notevole in sede live, e la posizione stessa dei musicisti sul palco, col bassista al centro, esattamente di fronte al batterista, ha reso l’insieme inusuale ed energico. Alessandro non ha nulla da invidiare ai “mostri sacri” del metal estremo nordeuropeo e, ancora di più dopo aver assistito a un loro live, penso che questi ragazzi daranno del filo da torcere ai loro stessi punti di riferimento.

Shores Of Null

La serata si è conclusa con gli Shores Of Null che, come scritto in precedenza, hanno portato sul palco il loro ultimo lavoro, Beyond The Shores (On Death And Dying), un album monotraccia di quasi quaranta minuti, accompagnato in questa sede dal video realizzato da SandaMovies. L’impatto dei componenti della band, in ombra, con alle spalle il suddetto video, che ha a mio avviso ben “illustrato” il brano nella sua complessità e innegabile solennità, mi ha colpito fin dalle prime note. Il frontman Davide Straccione indossava lo stesso cappotto usato durante le riprese, creando un effetto di continuità non indifferente: sembrava fosse uscito dallo schermo per raccontarci della morte e del dolore di chi la vive sulla propria pelle (la prospettiva è, infatti, quella della persona morente che attraversa le cinque fasi del lutto). La performance ha avuto una carica emotiva forte, a tratti violenta, e si è abbattuta sui presenti costringendoli a un momento di introspezione condivisa: siamo fragili e la vita è in guerra con noi (“life is at war with us”, dice il testo del pezzo). La versione “studio” di Beyond The Shores vede la partecipazione di diversi ospiti, i cui contributi vocali sono stati equamente distribuiti per questo live: Matteo Capozucca, il bassista, che da sempre si occupa delle parti in scream dal vivo, ha coperto i ruoli sia di Martina McLean (che è anche la mente dietro il videoclip), sia di Mikko Kotamäki (già frontman degli Swallow The Sun), mentre le parti in growl di Mikko sono state eseguite da Davide, assieme a quelle dell’altro ospite illustre, ovvero Thomas A. G. Jensen dei doomster danesi Saturnus. Le parti in clean di Mikko sono invece toccate al chitarrista Gabriele Giaccari, che si è occupato anche dei cori, in origine eseguiti da Elisabetta Marchetti, la cui assenza sul palco ha avuto, a mio avviso, un peso notevole, anche in termini di impatto visivo. Mi preme sottolineare il mio stupore nel vedere come Davide sia riuscito a rendere giustizia ai due ospiti stranieri, proponendo una personale interpretazione di due stili di growl molto diversi tra loro e anche dal suo: non è da tutti, e il risultato è stato davvero eccellente. Dall’ultimo ritornello alla conclusione del brano ho notato una ancor maggiore intensità nella partecipazione del pubblico: braccia alzate, quasi a voler afferrare quel momento di sospensione dell’incredulità e di alchimia profonda con la band. I ragazzi hanno lasciato il palco tra gli applausi. Alle loro spalle sullo sfondo, una citazione di Elisabeth Kübler-Ross, colei che ha teorizzato le cinque fasi del lutto: “Would we know the comfort of peace without the distress of war?”, come possibile spunto di riflessione su ciò che diamo per scontato.

Shores Of Null

È stato un festival impegnativo sotto molti punti di vista, senza dubbio uno degli eventi più coinvolgenti e completi a cui abbia partecipato, in un anno auspicabilmente anomalo in tal senso. Ci si augura, infatti, che andare a concerti torni a essere una normale e consolidata abitudine.

Nota di merito agli organizzatori, che sono riusciti nell’intento di dare spazio e supporto a realtà italiane di tutto rispetto.