DARKTHRONE, Astral Fortress

Come ogni volta che esce un nuovo album dei Darkthrone si può contare su alcuni giudizi prevedibili, suddivisi grosso modo tra: chi fa professione di fede aprioristica, un po’ come accade con tutti quei gruppi capaci di resistere decenni e portare avanti una propria fan-base devota, chi ha lasciato la band dopo i primissimi dischi perché tanto non sarà più in grado di ripetersi a quei livelli e chi, più o meno come me, pensa che al netto di una tenuta della barca su tutto il tragitto ci siano periodi migliori di altri. Vale anche il discorso dei gusti e del momento in cui si verifica l’esperienza di ascolto, ad esempio nel mio caso – a parte i gioielli di prima metà anni Novanta – la fase più godibile e vicina al mio attuale sentire è quella che va da The Cult Is Alive a The Underground Resistance, cioè il momento in cui le influenze NWOBHM, speed metal e persino punk si sono fatte sentire di più nella scrittura dei due, determinando uno stile crossover che poco o nulla aveva a che spartire con la matrice black delle origini. Per questo, l’attuale ciclo partito con Arctic Thunder mi trova meno entusiasta e, salvo Old Star che in parte riprendeva alcune scelte precedenti, non mi fa scapocciare come avrei desiderato. Del resto, non posso neanche dire che ci si trovi di fronte a episodi meno ispirati o poco riusciti, piuttosto noto una predominanza di ritmi rallentati e di influenze doom e una quasi totale mancanza di up-tempo in favore di brani atmosferici che colpiscono meno la mia indole casinista e non mi trascinano come succedeva in precedenza. Posto, del resto, che a chi mi legge dei miei gusti e della mia necessità di giocarmi la carta della nostalgia per la velocità e gli anthem frega a ragione poco o nulla, diciamo che rispetto a quelli che si lamentano dell’ennesimo disco scialbo e poco ispirato e a quelli che invece gridano al miracolo del nuovo capolavoro a nome Darkthrone ci troviamo a nel giusto mezzo: i brani ci sono e alcuni dei riff sono a dir poco ben riusciti, per non dire memorabili, le atmosfere che la band aveva intenzione di dipingere sono lì in bella mostra e non si può far vinta che non ci siano. Tutto gira come si conviene e non possiamo parlare certo di qualcosa buttato lì per far cassa, come dimostra (con tanto di richiami alle ballad proto-metal primissimi anni ottanta e un finale al sapor di Uriah Heep) “The Sea Beneath The Seas Of The Sea”, che vale da solo l’acquisto. Ciò che manca è però la capacità di far balzare dalla sedia che servirebbe per dar ragione a chi ne parla come di una nuova pietra miliare della storia dei Darkthrone. Siamo a un buon livello e ben distanti da alcuni lavori meno incisivi o poco a fuoco, il che mi basta per non parlare di un nome bollito o ormai fuori tempo massimo, il che, con buona pace dei detrattori, ritengo sia più che sufficiente per portarsi a casa la pagnotta. Per chi, poi, volesse saperlo, continuo a ritenere insuperabile Circle The Wagons e avrei voluto veder portato avanti quel tipo di percorso così come mi ha convinto più Old Star, ma di nuovo de gustibus.