DANIEL BLUMBERG, The World To Come + JOSEPHINE FOSTER, Godmother

Daniel Blumberg, ex Yuck acclamato per i suoi due album da solista, ha pubblicato nel febbraio 2021 la sua prima vera e propria, meritevole colonna sonora per un lungometraggio, il film “The World To Come” di Mona Fastvold, tratto dall’omonimo racconto di Jim Shepard e presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Colonna sonora che è stata stampata in cd e lp da Mute a inizio 2022. Le musiche di Blumberg, nella vita anche visual artist, si muovono con elegante leggiadria, in equilibrio tra predilezione per l’improvvisazione e la necessità di aderire a dei funzionali canovacci narrativi, e sanno essere altamente emotive in opposizione agli aspri panorami rurali e allo stile di vita dimesso delle fattorie americane del 1850, i luoghi dove si svolge la trama della pellicola. È stata definita una storia d’amore di frontiera, quella fra i due personaggi interpretati da Katherine Waterson e Vanessa Kirby (introdotti rispettivamente con le impressionistiche “Abigail’s Walk” e “Nellie”), con le relative traiettorie sentimentali (“Falling In Love”, con il bellissimo motivo free jazz dello strumento a fiato) a intrecciarsi con l’azione impetuosa degli agenti atmosferici (si senta la dissonante “The Storm”). La co-produzione è di Peter Walsh e alle esecuzioni partecipa un plotone di musicisti d’avanguardia che includono Peter Brötzmann al clarinetto e altri ottimi nomi a distribuirsi ai legni, agli archi spesso drammatici (“Thoughts And Township”) e alle percussioni, oltre a Josephine Foster alla voce nella conclusiva title-track. Incanto e pathos, fuoco e ghiaccio, vita e morte si avvicendano infatti sino alla trascendenza finale, alla speranza di quel mondo che verrà affidata all’interpretazione della singer-songwriter del Colorado.

Foster che, attiva da un ventennio e da sempre prolifica, è tornata di recente con un nuovo album, il nono per Fire Records, da lei interamente scritto, arrangiato e suonato con l’ausilio di chitarra e tastiere. Godmother è per l’appunto trascendenza all’ennesima potenza: oltre il folk e oltre la psichedelia, all’insegna di un misticismo che sfocia in pura estasi, flirtando con melodie dream pop, intrecci strumentali al contempo barocchi e minimali, sintetizzatori ambient a circuire le corde acustiche, sperimentazione applicata alla tradizione dello spirito, il canto come massima espressione di libertà. Lei stessa avvisa: potreste notare che sto viaggiando un po’ più lontano dal punto di vista sonoro dalla nostra preziosa terra, aspirando a elevarmi in una prospettiva astrale più ampia, a contemplare la luce e le origini di tutto ciò, poiché credo che ci sia una grande fonte che è la somma di tutto, di noi tutti. I nove brani in scaletta arrivano da luoghi sconosciuti e si proiettano verso destinazioni ignote, con la padrona di casa, in stato di grazia, quasi a vestire il ruolo di sacerdotessa. Davanti a “Flask Of Wine”, con quel groove caldo sottotraccia, oppure “Gold Entwine”, con quell’andamento sicamanico, si resta immediatamente succubi di questa madrina. La preghiera di “Guardian Angel” e l’ipnosi di “Nun Of The Above”, con gli emblematici versi I feel ecstatic for the universe, corrispondono a sinfonie umane-aliene in cui potrebbero benissimo incontrarsi Judee Sill e Kaitlyn Aurelia Smith. Paragoni comunque inutili, perché Godmother è innanzitutto il capolavoro di Foster e per ora uno dei dischi assolutamente da non perdere quest’anno.