CLAUSTRUM, Claustrum

Non sono mai stato fan del death metal e nei Claustrum suona il basso un mio amico che è stato in molte band locali, Grime compresi. Non il miglior modo di occuparsi di un disco: impreparati e di parte.

Durante gli ultimi anni, morto il post-metal, calato l’entusiasmo per il doom, c’è stato un revival clamoroso di un genere che in precedenza nessuno voleva più ascoltare. Io stesso mi sono trovato – in alcuni casi più volte – a concerti di monumenti come Morbid Angel, Obituary, Terrorizer, Cannibal Corpse, Incantation, oltre che a quelli delle nuove leve. Me lo avessero detto nel 2007, non ci avrei creduto, invece dieci anni dopo sarei pure finito a un Netherlands Deathfest. A un certo punto Wire, una rivista che mai aveva cagato quella musica, ha confezionato una guida all’ascolto di qualche pagina, missione impossibile dato che negli ultimi trent’anni abbiamo chiamato death metal roba suonata da musicisti con la tecnica dei migliori jazzisti come lavori pionieristici di ex punk che volevano spingersi ancora oltre in termini di aggressività, e in mezzo abbiamo avuto ogni possibile sperimentazione/contaminazione, persino – da alcuni – ogni inimmaginabile ammorbidimento commerciale. Alla fine del pezzo di Wire, l’autore Phil Freeman (Burning Ambulance) dedicava un paragrafetto a quelli che lui chiamava classicisti e revivalisti, utilizzando la sigla “OSDM” (old school death metal), menzionando band come Tomb Mold, Horrendous, Chapel Of Disease (io avrei buttato dentro anche i Blood Incantation), tutte sporche e primitive come i pionieri, ma non di quelle che per scelta si seppelliscono (questa la capite dopo) tra riverberi e inintelligibilità. Tra questi classicisti, secondo me, troviamo oggi anche i Claustrum, che infatti non hanno problemi a fare i nomi degli amici più grandi che li hanno accompagnati lungo la via della mano sinistra: Autopsy, Asphyx, Death e Incantation. Il loro album d’esordio ha tutte le carte in regola per diventare un oggetto di culto per appassionati: ha un’etichetta seria dietro (Avantgarde), una gran copertina (firma di Davide ‘Dart Works’ Mancini), una eccellente introduzione atmosferica gobliniana realizzata dal genio Vanessa Van Basten, poi cinque pezzi (e un outro) infernali che sono la famosa discesa nel Maelström, ma sapientemente rallentata in alcuni frangenti, di modo che chi ascolta sia costretto a guardare a lungo il volto del Diavolo e non dimenticarlo mai più, uscendo dall’esperienza coi capelli bianchi (se ne ha ancora), proprio come il protagonista del racconto di Edgar Allan Poe.

Richieste da parte mia? Che in futuro io possa riconoscere subito i Claustrum in mezzo alla massa di nostalgici. Ah, e una maglietta con questa copertina sopra.