BÄRLIN, State Of Fear

Non ci sono scusanti… l’ho cercata, ricercata, in ogni dannato supporto tecnologico… l’ho persa. La mia prima recension di State Of Fear dei Bärlin è da qualche parte tra i bit. Meglio fra le onde come immaginario, dato che il quartetto francese sembra barcamenarsi in un bagnasciuga umido e tormentato, in cui invitano David Thomas, gli fanno indossare un vecchio cappotto in tela cerata e gli mostrano quello che sanno fare in 40 minuti scarsi. E ce n’è, madonne se ce n’è. Basso, batteria, clarinetto, risate, ululati, sbuffi e voci che spezzano vento ed onde.

Un caracollare vivido direttamente da Lilla, autori Clément Barbier, Laurent Macaigne, Simon Thomy, tre tipacci che, credetemi, ad incontrarli potreste fuggire spaventati, ma fateli salire su di un palco e vi faranno sentire le unghiate degli orsi e dei lupi. Musica come se i lamenti contro la luna avessero finalmente avuto un senso, dolori e tumefazioni, vibrati e colpi di vento. “Deer Fight”, “Revenge”, “All work And No Play”, “A Glowing Whale”, “Farewell Song”, “Body Memory”, “State Of Fear”, “Sgink Era Ew”, “Sturm” i nove titoli in esame. Brutto, inutile separarli, corpo unico nervoso, vibrante ed incazzato, come se Pere Ubu, Gallon Drunk, Morhpine si fossero svegliati con i coglioni girati e il disco fosse il risultato dei loro guaiti dopo una sacrosanta scazzottata.

Mi sarei potuto voltare dall’altra parte, far finta di non conoscerli, passare ad altro e lasciar perdere, certo, perché no? Chi se ne sarebbe accorto, del resto? Ma tornarci sopra non mi costa fatica, anzi: avrei potuto essere più stringato, usare solo tre parole.

Album della madonna.

Album dell’anno.

Forse, ma non ne avreste sentito il sapore, la consistenza, il freddo del corpo che tende ad evaporare sedendosi in mezzo alla calca, quindi suvvia, concedetemele, altre tre.

Torbato. Dalla prima.