ASK THE WHITE, Sum And Subtraction

Ask The White

È la somma che fa il totale, diceva il leggendario Totò, e un altro che la sapeva lunga, Mies van der Rohe, ci ricordava che less is more.

Sum And Subtraction, si intitola questo (ottimo) disco d’esordio per Ask The White, un duo composto da Isobel Blank  e Simone Lanari, già in Ant Lion e Sycamore Age. Una somma di vari elementi dosati con equilibrio, poesia e grande dinamica, e la capacità (non semplice da trovare) di sapersi fermare un momento prima di suonare ridondanti o stucchevoli, pur nella grande varietà di soluzioni adottate.

Inizia “You, Cloud” (bel titolo, che mi fa pensare a una splendida poesia di Antonella Anedda ,“Nuvole, io”: recuperatela, ne vale la pena) e sembrano i Portishead: un valzer lunare guidato da un synth algido su cui si appoggia una voce fragile, autunnale; arpeggi avvolgenti, suoni curatissimi, ma fino a qui nulla di esaltante e, quando già ti stai dicendo in testa, ok, sono bravi, però la personalità dove sta?, ecco che ti sorprendono, perché poco dopo due minuti l’arpeggio s’interrompe e fiorisce tutta una epifania di voci, una specie di aurora boreale iperpop. Se il mondo fosse un posto dove le cose vanno come devono andare, questo pezzo avrebbe un airplay forsennato, visto come unisce benissimo un appeal assolutamente cantabile con il coraggio di non fermarsi al già detto ed al già sentito: come degli Eurythmics sparati in una dimensione senza gravità, come un upgrade marziano dei migliori Depeche Mode (simile è la capacità di azzeccare melodie a presa rapida, anche se qui prevale un gusto decisamente più progressivo, nel senso migliore del termine) o una versione bianchissima dei Massive Attack (“Neither A Moon”).

Su una struttura che possiamo sommariamente definire folk, i nove pezzi del disco riescono nell’arduo compito di non ripercorrere le solite strade, pur non adottando soluzioni inedite: semplicemente sono il talento e la sapienza musicale a fare la differenza. “Just Take Me To” suona come una Shannon Wright in combutta con Henry Cow, una sorta di songwriting in opposition che non tradisce le proprie origini, ma è capace di volare lontano grazie alla voce da uccello di Isobel. Non sempre i pezzi riescono a centrare il bersaglio, ma il fatto è che anche quando i brividi non arrivano (“A Millionaire Tree”), non si può far a meno di restare ammirati dalla certosina precisione artigiana del duo nel cesellare deliziose miniature pop che racchiudono nel loro scrigno segreti noti ma imprendibili ai più. “The Battle Of The Happy Claustorms On Two Strings” ci porta dalle parti dei King Crimson e fa riemergere dalle nebbie della memoria anche graditissimi echi di una grande e dimenticata cantautrice molto speciale che fece un paio di dischi (Admiral Charcoal’s Song nel 1996 e Home Wreckordings nel 2001, entrambi per Knitting Factory Records)  per poi sparire e che ebbe il suo quarto d’ora di ribalta per essere stata la musa di Jeff Buckley: Rebecca Moore. Un pezzo come “Rember The Future” ce la riporta proprio davanti, come un meraviglioso fantasma, col suo folk intimo e orchestrale, scuro e celeste al tempo stesso, potente eppure in punta di dita, proprio come quello di Ask The White. La potenza* è data dal non fare nemmeno un passaggio a vuoto e dal non suonare mai didascalici o prescindibili: sono brani che grondano cuore, questi, un cuore che viene raccontato con una grammatica fluida, un discorso scorrevole, un lessico ampio, ricco, affascinante, che ha un respiro internazionale (non a caso il disco uscirà anche in Giappone). Delicata e toccante “Fall”, che apre un sipario quasi beatlesiano per poi deviare verso panorami di penombra (del resto è proprio l’autunno la stagione in cui, all’improvviso, il buio ci sorprende, proprio alla fine di ottobre) con un arrangiamento fatto di pochi, preziosissimi elementi, benedetto da un pugno di note di synth che ci ricordano i tempi belli e indimenticati di Feel dei Motorpsycho, da Timothy’s Monster, anno di grazia 1994. Ma le ferite di questo disco, come cantano loro stessi, non mentono, e spingono a tornare daccapo, come quando si compie di nuovo lo stesso, meraviglioso errore. Perché, come diceva Ezra Pound, sogni solo possono veramente essere, perciò in sogno a raggiungerti m’avvio.

Il disco è stampato in vinile e digitale dalla Ammiratore Omonimo Records dei Vonneumann, una nostra vecchia conoscenza, e vedrà la luce anche nel Sol Levante in formato cd per l’etichetta Athor Harmonics. Gli Ask The White ci avvertono : “don’t try to remember the future”, ed in questi tempi cupi e frantumati è sempre più difficile dire ciò che dirò, tanto più sotto un cielo di coltelli spenti e dalla nostra misera posizione di terrestri avvinti alla gravità che vedono la luce di astri morti -mila anni fa; ma forse proprio per questo Io lo dico, a bassa voce eh, ma lo dico: forse, con questo disco è nata una stella.

* Chi scrive è convinto ci sia un grande equivoco sul concetto di potenza in musica: Son House che strappa la sua chitarra da due soldi senza amplificazione e canta “Death Letter” come se fosse davvero questione di vita o di morte è cento volte più potente, perché più vero, più urgente, di un qualsiasi gruppo che si nasconde dietro un muro di amplificazione , come Sunn O))) e compagnia bella. Se, in vent’anni e passa di concerti, dovessi dire quale sia la cosa più tosta che ho mai sentito, non avrei dubbi: Art Ensemble Of Chicago a Piacenza nel 2006; quando suonarono Nonaah e poi partirono di improvvisazione selvaggia con Roscoe a tenere le redini della tempesta con la respirazione circolare, erano molto più pesanti dei Pantera. La potenza sta nel concetto, nella libertà, nel controllo, non nel volume. Quando ho visto gli Swans a Parma a un volume disumano mi sono semplicemente annoiato a morte. Cosa c’era dietro quella coltre di decibel? Poco, o nulla.

Tracklist

01. You, Cloud
02. Neither A Moon
03. Just Take Me To
04. A Millionaire Tree
05. The Battle Of The Happy Claustorms On Two Strings
06. Remember The Future
07. I’m Not A Place
08. Fall
09. Known