ADRIANO ZANNI, Disappearing

Il suono di una fine. Come già per il live del suo conterraneo Giovanni Lami al Transmissions 2016, questa è la prima suggestione che emerge dall’ascolto di Disappearing, il nuovo, ottimo lavoro del ravennate Adriano Zanni.

Un blues di nastri e silicio per un mondo animato da torbide presenze, da voci che di umano conservano poco, da memorie lontane eppure angoscianti, da un’atmosfera senza gravità. Musica che sarebbe perfetta per un film di Herzog, intimamente cinematografica perché portatrice di una visione personale e forte. Cinque tracce in vinile per un disco che è un vero e proprio inventario di fantasmi. Si apre il sipario con le atmosfere dense e quasi horror di “Dreams And Falling Trees” (provate ad ascoltarla al buio), poi tocca a uno scuro e scontroso rimestare di nuvole elettroacustiche che promettono pioggia, infatti esplodono beat come tuoni e lampi dopo quattro minuti abbondanti di nerissimi presagi (“About The End, Without Beginning”), per poi sparire. Pare il suono di una fonderia sul monte Olimpo quello forgiato in queste tracce (invece siamo dalle parti del mare Adriatico spento e mangiato dalle industrie del petrolchimico, come già documentato benissimo su disco in Piallassa e su fotografia nel libro Red Desert Chronicles), c’è un’epica malmostosa e cattiva che informa ogni momento, come se le visioni che già furono di Antonioni si incupissero ulteriormente in una sorta di epifania da ora del lupo bergmaniana. Ci sono voci che non sappiamo riconoscere. Da dove vengono? Cosa cercano di dirci? Non è dato saperlo, stiamo sparendo, questo è il nostro ultimo viaggio, e l’unica opzione è continuare a camminare. Passo dopo passo ci addentriamo sempre più in questo sogno dai profondi toni grigi, tra visioni lynchiane (la copertina è puro “Twin Peaks”, le voci in reverse di “What Is Left” ci fanno voltare per sincerarci di essere veramente soli nella stanza), ombre di dub da camera anecoica (come una versione funeraria e asciuttissima di certe cose della gloriosa Scape di Stefan Betke), un approccio autoptico che sa di Autechre, ma senza quella divorante ansia ritmica: i tempi sono lunghi, gli spazi larghi, seppure al contempo claustrofobici, gli umori umanissimi e dunque catastrofici.

Poi (“In The Distance”) una vaghissima psichedelia clinica con un che di nordico (non sono così lontani certi suoni del mago norvegese Deathprod) si prende la scena per sei minuti, aprendo una parentesi che ci dà respiro e ci allontana dalle viscere della terra inospitale (e per questo così affascinante) in cui eravamo sprofondati. L’ultima stanza da attraversare è un passaggio breve, “Disappearing (The Last Trip)” ci lascia dopo tre minuti con le nostre paure, con le nostre ansie e con il nostro desiderio di avere paura.

Un disco che somiglia alla camera 237 dell’Overlook Hotel. Mette paura solo a passarci accanto, ma esercita un fascino terribile.