TIM HECKER, Anoyo

TIM HECKER, Anoyo

Anoyo è frutto delle stesse sessioni di registrazione con i Tokyo Gakuso che diedero vita a Konoyo dell’anno scorso e ne ripropone tematiche ed elementi di base, quasi a voler aggiungere un post-scriptum alle vicende che vi avevamo raccontato a suo tempo più che a inscenare un’opposizione a esso, come la traduzione dei termini suggerirebbe. La tensione irrisolvibile tra “questo mondo” (konoyo) e un indefinito “altro” (anoyo) era il motore perpetuo che animava il primo disco e che muove anche questo secondo, in cui la differenza sostanziale è semmai un maggior senso di rassegnazione. Basta ascoltare per esempio “That World”, la traccia d’apertura, contenente alcuni dei topoi sonori ricorrenti in tutto il lavoro: incedere modesto, quasi circospetto e al contempo inevitabile, mentre archi e flauti in alta tonalità accennano una lamentatio accorata ma smarrita, drammaticamente in contrasto con quel rimestare di fondo, quella sorta di basso continuo costituito da grigi blocchi digitali che si sgretolano e si ricompongono secondo una logica del tutto indifferente a ciò che si muove sopra di loro, come se rappresentassero un’immanenza del tutto cieca all’agitarsi delle controparti più organiche della composizione, che di volta in volta assumono i contorni di una disperata invocazione solitaria, di un senso di abbandono scoraggiato o si assestano su minimali fraseggi interrogativi che si spengono nel vuoto. Il suono delle percussioni, usate peraltro con estrema parsimonia, assume quasi sempre la forma di colpi ciechi, che battono a vuoto, uno sbattere ottusamente la testa contro il muro come ultima, ormai priva di scopo, affermazione di resistenza contro l’avanzata di un deserto che si espande in orizzontale e in verticale come in “Is But A Simulated Blur”. Il disco si chiude con una delle cose forse più “tradizionali” che Tim Hecker abbia fatto negli ultimi anni, con colpi di tastiera che dolcemente cullano verso quell’oblio inintelligibile già presente nella traccia d’apertura, ma di cui hanno perso i connotati di minaccia, per lasciare in conclusione esclusivamente spazio a un giro melodico di commiato malinconico. E probabilmente è in quest’ultima traccia che appaiono più evidenti sia gli scollamenti di quest’album dal suo “genitore”, sia le sue debolezze. Se in Konoyo la dinamica era conflittuale, complessa, una tortuosa ma anche vivida ricerca di senso, in Anoyo questa tensione sfuma in un sentimento di dubbio, di perdita, nell’attestazione di una sconfitta, nell’impossibilità di un adattamento. Ed è un esito consono, che Hecker riesce a mettere in esecuzione con una linearità insolita. Il problema semmai è proprio questo: l’aver prosciugato il discorso di una complessità che rendeva magari l’ascolto non esattamente agevole, ma che restituiva bene lo stridere intricato di un rompicapo sonoro/esistenziale. Tolta questa complessità, è facile incorrere in qualche perdita di focus, la sensazione di aver a che fare con una versione più sbiadita della visione dell’artista canadese o in qualche scivolamento troppo facile verso una palette emotiva troppo ristretta. Ciononostante, l’architettura del concept messa in piedi da Hecker, sia in questo disco, sia unendo i due tasselli, rimane roba affascinante e non sembra per niente roba da poco.