THE MEN, New York City

Per parlare di un nuovo album dei newyorkesi The Men è sempre necessario un “ripasso” della loro discografia in modo da tracciare un percorso, con tutte le evoluzioni, mutazioni e sperimentazioni che sono diventate una delle loro caratteristiche costanti, rendendo difficili una loro categorizzazione o un loro “etichettamento”. Dal noise al country rock, dal garage più primario allo shoegaze, la proposta dei The Men è sempre stata varia e variabile di volta in volta. Quest’anno intendono regalarci un album che farà la gioia di tutti gli amanti del rock n’roll più grezzo partorito dal mondo anglosassone tra la fine degli anni Sessanta e nel corso del decennio successivo. Sin dalle prime note della prima traccia (oltre che dal titolo del disco) si capisce il tributo al proto-punk newyorkese (anche senza “proto” e non solo della Grande Mela) di quegli anni. Così come si intuisce la volontà dei due fondatori Mark Perro e Nick Chiericozzi (ai quali si sono uniti il batterista Rich Samis e il bassista Kevin Faulkner) di dare alla registrazione e alla produzione una qualità che ricordi il più possibile quei suoni, a partire dal fatto che il tutto è stato concepito in presa diretta al Travis Harrison Studio di Brooklyn. E questi suoni non sono nuovi per il gruppo, erano già presenti ad esempio in Open Your Heart del 2012 (seppur affiancati a molti arrangiamenti dal country all’alternative rock) e sono sempre stati un’influenza più o meno pesante a seconda del periodo. Per i The Men New York City è una sorta di ritorno alle radici: il titolo è un omaggio al posto dove sono nati e alla sua impronta musicale, senza la quale forse non sarebbero mai esistiti. È quindi un susseguirsi di rimandi ai New York Dolls e Dictators così come a Lou Reed e ai Velvet Underground e ai Television, alternato ad episodi semi-ballad con influenze folk (“Anyway I Found You”) e “hard blues” – dagli echi Stoogesiani – con una durata maggiore che non si discostano però dal resto della scaletta, che si chiude con la traccia più lunga di tutte (“River Flows”, sei minuti e mezzo). Un disco che non trasuda sperimentazioni o eccessive incursioni nel noise ma non è necessariamente qualcosa di negativo: se fosse uscito nel 1975, oggi sarebbe un punto di partenza per numerose nuove band.