ST. VINCENT, Daddy’s Home

È stato diffuso di recente il trailer del meta-film “The Nowhere Inn”, già presentato al Sundance Film Festival e in uscita il prossimo settembre. Meta-film che, diretto da Bill Benz, vede nei panni delle protagoniste e co-sceneggiatrici St. Vincent e Carrie Brownstein delle Sleater-Kinney (che torneranno peraltro a giugno con il nuovo album, Path Of Wellness, successore di quel The Center Won’t Hold prodotto proprio da St. Vincent). The Nowhere Inn ruota attorno alla distorsione del concetto di celebrità e segue le due amiche durante la realizzazione di un documentario sulla musica di St. Vincent, sulla sua vita in tour e sull’immagine pubblica dell’artista, ma presto subentrano delle forze imprevedibili in agguato che minacciano di causare problemi all’amicizia, al progetto e alle vite creative del duo. La cosa è interessante perché si è ciclicamente molto disquisito, spesso semplicemente a torto, della schermatura di Annie Clark dietro la maschera artistica di St. Vincent. A torto, perché in fondo è sempre stato il destino delle icone – da David Bowie a Prince, per richiamare due “santini” della stessa Clark – quello di cambiare pelle e costumi in base a esigenze artistiche di volta in volta rinnovate.

Perché dovrebbe essere un problema, allora, nel caso di St. Vincent, uno dei nomi più rilevanti tra quelli impostisi sulle scene negli ultimi lustri? Dall’ancor timido benché raffinato esordio Marry Me siamo passati all’indie pop-rock sempre più surrealista di Actor, trampolino di lancio verso il successo, sino a quello Strange Mercy del 2011 che ne attestava definitivamente la caratura, come songwriter estremamene personale e come chitarrista capace di rigenerare sound e stile applicato al suo strumento. Poi ci sono stati l’avveniristico party-album omonimo del 2014 e il glammeggiante Masseduction del 2017, due prove rispettivamente di liberatoria estroversione e autentica esplosione. Nel corso dei live a supporto del primo, Clark si offriva addirittura in simbolico sacrificio agli schermi dei telefoni cellulari in mano agli spettatori: indizi che riportano appunto all’atteso The Nowhere Inn, al gioco consapevolmente autoironico svolto attraverso la propria immagine.

Immagine che qui, per Daddy’s Home, cambia in maniera radicale: Clark indossa addirittura una parrucca e abiti vintage, ponendosi al centro di un’esplicita messinscena. Il set ricostruisce la Grande Mela: Daddy’s Home è una raccolta di storie sul sentirsi a terra in giro per le strade di New York City. I tacchi della notte scorsa sul treno del mattino. Il trucco di tre giorni prima ancora sul viso. Le sonorità funk e R&B tirate in ballo nello spigoloso Masseduction entrano nella macchina del tempo, dal futuro di ieri al passato di oggi, e sfociano in un puro, fluido soul primi anni ‘70, perfettamente (ri)prodotto al fianco di Jack Antonoff, in collegamento agli ascolti macinati su vinile assieme al padre nel periodo dell’infanzia. È al ritorno a casa del padre, uscito di prigione dopo nove anni di reclusione per riciclaggio, che si riferisce d’altronde il titolo del lavoro.

Ulteriori figure che emergono dall’ascolto sono quelle direttamente rivelate dalla padrona di casa come fonti di ispirazione, da John Cassavetes all’attrice Candy Darling, musa di Andy Warhol già omaggiata tanto da Lou Reed quanto da Antony & The Johnsons, alla quale è dedicata l’omonima breve traccia in scaletta. Detto ciò, Daddy’s Home però non convince appieno, né nella cornice d’insieme, un po’ abusata, né nella scrittura, più calligrafica che brillante, candidandosi già come capitolo minore nella discografia della musicista americana. Tolti gli inutili interludi filo-cinematografici, al massimo d’atmosfera jazzy, il singolo apripista “Pay Your Way In Pain” è un numero d’alto divertimento che unisce nell’attitudine il già summenzionato Prince e gli esperimenti metamorfici del Beck di Midnight Vultures (il relativo videoclip ambientato nel mondo dei varietà televisivi è stato girato, hey, da Benz). La morbida psych ballad “The Melting Of The Sun”, munita di cori gospel e citazioni in quantità (Pink Floyd, ma soprattutto guerriere dolenti quali Jayne Mansfield, Joni Mitchell, Marylin Monroe, Tori Amos, Nina Simone), e la più sincopata revenge song “Down”, con ogni probabilità i migliori episodi del lotto, sfoderano una necessaria rivendicazione femminista, al di là di ogni datazione cronologica, dunque negli intenti al di là della vita e della morte. In attesa della prossima trasformazione, mettiamo via di sicuro almeno queste belle cartoline-memo.

Tracklist

01. Pay Your Way In Pain
02. Down And Out Downtown
03. Daddy’s Home
04. Live In The Dream
05. The Melting Of The Sun
06. The Laughing Man
07. Down
08. Somebody Like Me
09. My Baby Wants A Baby
10. …At The Holiday Party
11. Candy Darling