ŠIROM

foto di Nada Žgank

I Can Be A Clay Snapper, uscito per Tak:til (come altri recenti lavori notevoli, vedi Wood/Metal/Plastic/Pattern/Rhythm/Rock dei 75 Dollar Bill oppure Simultonality di Joshua Abrams & Natural Information Society) è un disco che ti accoglie da subito in un mondo arcaico eppure familiare, che sa di nenie popolari, di avanguardia delicatissima, di minimalismo, di favole che appartengono all’antico e sanno inventare un futuro remoto, un tempo che non c’è. Un vero e proprio scrigno delle meraviglie nel quale convivono immaginari e realtà diversissime: miracolosamente, però, tutto si tiene. I tre Širom vengono dai dintorni di Lubiana e, per quanto mi riguarda, sono senza ombra di dubbio la rivelazione musicale del 2017. Le domande sono state inviate via mail e il gruppo ha scelto di rispondere “collettivamente”. Grazie a Fabrizio Garau, qui in veste di traduttore dall’inglese all’italiano, e viceversa. 

Devo confessare che non sapevo di voi prima di occuparmi di I Can Be A Clay Snapper. Forse mi sbaglio, ma non sono in tanti in Italia a conoscervi, anche se avete già suonato qui (Venezia, Aeson Festival…). Vi va di raccontarci qualcosa del gruppo o del vostro album precedente? 

Siamo (Samo Kutin, Ana Kravanja e Iztok Koren) un trio folk sperimentale sloveno, siamo nati nel 2015. Descriviamo la nostra musica come “imaginary folk” o “folk da un universo parallelo”. All’inizio eravamo partiti come una band “drone/impro” e poi abbiamo sviluppato il nostro sound attraverso un numero enorme di sessioni d’improvvisazione con più di 25 strumenti, creando quasi sempre lentamente i nostri pezzi.
Il nostro primo album si chiama “I”. Ha più “momenti impro”, è più rilassato e non così denso come il suo successore.

Quando ho iniziato ad ascoltare il vostro disco, i miei pensieri sono corsi subito verso Iva Bittová. Mi sembra che abbiate un’idea simile di folk: aperto, in cambiamento, coraggioso, arcaico e moderno allo stesso tempo. Vi va di parlare dei vostri ascolti o semplicemente raccontarci come create la vostra formula affascinante (“acoustic folk avant-garde experimental”, come scrivete sul vostro sito)?

Quando abbiamo iniziato a suonare non sapevamo che musica sarebbe uscita, ma eravamo tutti d’accordo sul farla acustica, solo strumentale e di essere aperti a idee differenti.
Nel registrare il secondo album, abbiamo inoltre deciso di girare un film. L’idea era quella di visitare i posti dai quali veniamo, quelli che sono i più difficili da raggiungere, per vedere come l’ambiente in cui siamo cresciuti e i ricordi che risveglia avrebbe avuto un effetto sulla nostra improvvisazione musicale. Il film si chiama “Memoryscapes”, è una specie di documentazione di quest’esperimento, ma l’esperimento stesso di sicuro ha influenzato la creazione di questo secondo album.

Ribab, Cünbüs, Ngoma, Mizmar, Brač, Gongoma: grazie a voi ho ascoltato questi strumenti per la prima volta (ho avuto tante “prime volte” con questo disco e di solito è un indizio di capolavoro). Questi strumenti non sono necessariamente appartenenti alla vostra area geografica. Che ci potete dire su di essi? 

Alcuni sono strumenti tradizionali (banjo, violino, viola, ribab, cünbüs, ngoma, mizmars, lira, brač) che abbiamo preso nel corso dei nostri viaggi in diversi paesi (Samo era in India, Mali, Marocco, Creta; Ana in Argentina, Bolivia e Marocco) oppure acquistato in Slovenia.
Samo è anche costruttore di strumenti da tanti anni, ma noi usiamo solo una parte della sua collezione (balafon, basso a una corda, chimes, arpa, vari oggetti). 

Il vostro album evoca istantaneamente antiche storie, paesaggi distanti e allo stesso tempo familiari, basta guardare alla copertina. Quale è il vostro rapporto con la tradizione e con la cosiddetta “musica etnica”? In alcuni momenti ho trovato tracce di gamelan, di Africa (ma vista dai Balcani), di musica per dare la caccia agli orsi. Chiudendo gli occhi, ho immaginato antichi riti mongoli (“Ten Words”).

In mezzo al mucchio di stili musicali che ci piace ascoltare, ci sono il folk e la musica “etnica”/“etno”, field recordings, musica rituale di paesi distanti e cose simili. Non vogliamo copiare nulla di tutto questo. Usiamo solo un sacco di strumenti tradizionali, che possono di sicuro suonare anche “tradizionali”, ma noi vogliamo sempre fare una musica che sia nostra, originale, non appesantita da alcuna eredità o da qualche stile musicale.
Noi non vogliamo controllare tutto il processo creativo, sperimentiamo molto e siamo sempre aperti a esplorare e vedere cosa succede e dove la musica ci guida. Non siamo coscienti nemmeno al 50% di cosa abbiamo creato con questi due album. Questo diventa chiaro quando sentiamo le persone raccontarci la diversità di emozioni, di ricordi, di immagini mentali, visioni provocate dall’ascolto della nostra musica. Ne siamo sorpresi, perché di solito si tratta di descrizioni alle quali non avevamo mai pensato. E grazie ad esse vediamo la nostra musica da diversi punti di vista ed è davvero fantastico. Consideriamo la musica un essere vivente e qualcosa che è separato dall’autore. Quando concludi la canzone e la dai alle persone, la lasci sul serio avere una vita indipendente. Come quando i bambini crescono.

Se uno ascolta “Everything I Sow Is Fatal” forse può immaginare una specie di versione turca dell’Art Ensemble Of Chicago. A un certo momento, durante il pezzo, vi spostate su di una melodia arcaica tra folk e minimalismo. Come possono così tante diverse influenze fondersi in una sola canzone? La vostra musica è molto articolata, ma scorre comunque… 

Come detto prima, non sappiamo come questo succeda. Lavoriamo su di un pezzo a lungo affinché le transizioni tra le parti diverse sembrino naturali e non forzate. È davvero un lungo processo. Dobbiamo trovare l’equilibrio tra di noi ed essere sensibili nei confronti delle diverse percezioni che abbiamo del materiale musicale sul quale lavoriamo. Dobbiamo anche rispettare i diversi punti di vista e a volte anche desideri inutili. Avere una band è come avere una seconda famiglia, ci sono tante cose che succedono all’interno di questa relazione e si tratta di cose cruciali per il processo creativo.

In “Master Kneading Screams Of Joy” ho sentito Steve Reich. Ho anche pensato che se al posto di strumenti acustici aveste avuto strumenti elettrici, non sareste finiti lontano da un gruppo post-rock come i June Of 44. Hanno un senso per voi questi riferimenti o sono fuori strada? O semplicemente non siete interessati a tutti questi paragoni? 

Di nuovo, come detto prima, ogni ascoltatore può avere una percezione diversa di ogni canzone, e fare le sue associazioni. Qualcuno può pensare a Steve Reich, qualcun altro al suo primo amore e qualcun altro ancora all’inizio dell’universo. Ma è divertente sentire tutti questi diversi riferimenti musicali. Tante volte la gente ci paragona a band che noi non abbiamo mai sentito prima.

Siete tutti di Lubiana? Vi va di parlarci della vostra città, della sua scena musicale o giusto fare il nome di qualche band che dovremmo sentirci?

Viviamo tutti vicino a Lubiana, anche se tutti proveniamo da cittadine lontane.
Parleremo della scena sperimentale della città. Il contrabbassista Tomaž Grom ha iniziato un workshop di improvvisazione non idiomatica (detta anche “free improvisation”, si sviluppò in Italia grazie all’opera di progetti monumentali come il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza oppure i Musica Elettronica Viva, mentre in Europa e negli Stati Uniti furono musicisti come Han Bennink, Tony Oxley, Derek Bailey, Peter Brötzmann, Art Ensemble Of Chicago, oppure Otomo Yoshihide in Giappone, ndr) anni fa e questo ha avuto una grossa influenza sulla scena musicale di Lubiana. Da quel momento tanti concerti di musica sperimentale hanno avuto luogo, sono nati nuovi gruppi e di sicuro Širom ne è stato influenzato in termini di preparazione degli strumenti, scoprire nuovi suoni, avere una forma aperta di composizioni. Provate: Oholo, Tomaž Grom & Irena Tomažin, Olfamož, Škm Banda, Slovena Voices, Bakalina, Matija Solce (in vari progetti), Žoambo Žoet Workestrao, Dani Kavaš. 

E vi interessa la musica italiana? Conoscete qualcosa sulle nostre band o della nostra tradizione?

Abbiamo un po’ di amici italiani che sono musicisti, e ovviamente conosciamo tarantella, launeddas, I canti sardi e il folk della Val Resia.

Siete musicisti a tempo pieno (anche in altre band o contesti) o avete altri lavori?

Samo e Ana sono musicisti a tempo pieno e suonano assieme come Najoua (gli strumenti sono le kalimba), poi negli Olfamož e in vari gruppi o contesti improvvisativi. Fanno anche musica per teatro, danza, fiabe e film, gestendo workshop creativi per bambini.
Iztok non è musicista a tempo pieno. Suona in una band post-folk-jazz-rock band (Škm Banda) e lavora come operatore sociale.

Domanda classica: progetti futuri? Pianificate un tour? Vogliamo vedervi presto in Italia, perché l’album ci entusiasma molto, e questo non accade di frequente…

Stiamo pianificando due tour per il 2018. Il primo sarà tra marzo e aprile in Europa Occidentale (suoneremo probabilmente anche in Italia) e il secondo sarà in Scandinavia, a ottobre. Stiamo anche organizzandoci per dei festival estivi. Tutti i nostri concerti saranno annunciati dal nostro sito. Saremmo felici di suonare in Italia in qualunque momento. Siamo vicini, sentitevi liberi di invitarci.

foto di Iztok Zupan