Prendere appunti #3

Nuovo appuntamento di questa rubrica con un po’ di novità discografiche, alcune interessanti, altre meno. Buona lettura, e ascolto…

Elettronica

DUBIT, Vitriol (Backwards Records)

It’s as if Raison d’être met Shackleton in the recording room to create a soundtrack for the end of the world.

Maree ambient, drone montanti, atmosfere tese. Sono le impressioni lasciate dall’ascolto del secondo album, dopo Fragmenti del 2015, di Dubit, cioè Pier Alfeo. Pugliese, con un passato a Berlino, e tenutario di una piccola etichetta specializzata in cose elettroniche (la Several Reasons Recordings), ora anche insegnante alla Scuola di musica elettronica del Conservatorio di Bari. Tectum sembra portarci nel più classico dei mondi distopici, e il risveglio non è certo dei più sereni, specie quando campane e tintinnii la fanno da padrone a metà pezzo, non ho citato a caso la composizione più articolata, proprio perché epitome del discorso che sembra voler imbastire Dubit. A tratti viene in mente il disco di Lucy, Self Mythology: medesima è infatti la voglia di miscelare umori etnici a basi quasi marziali, con meno intenzioni Zen però. “Invenies”, per esempio, è una nenia sordida che ricorda l’apocalyptic folk, con quel didgeridoo campionato, le percussioni metalliche… Il torinese Marco Milanesio si occupa di dare corposità e rigore a un suono che è già di per sé parecchio fisico, e il lavoro fatto ha certamente enfatizzato le migliori caratteristiche di questo album da scoprire lentamente.

ADRIANO ZANNI,  Soundtrack For Falling Trees (Bronson Recordings)

Devo confessare che più ascolto la musica di Adriano Zanni e più la associo (ancora non so bene perché) a quella di Fabio Orsi. I due, in effetti, sono anche stati compagni di scuderia in Boring Machines. La differenza più evidente sta nel fatto che il pugliese lavora su un drone più materico, mentre il ravennate sembra rifinire in modo più netto le textures e l’atmosfera generale, proprio come succede anche in questa nuova tape per la Bronson Recordings. Soundtrack For Falling Trees è un ideale viaggio nella memoria, che vaga nella natura brumosa della pianura Padana (Lonely Trees) o tra ideali dune solitarie della luna (Fallen Trees”), o addirittura in un viaggio interstellare assieme a chissà quale band krautrock (Dead Trees”). Le orecchie più sensibili a questo tipo di sonorità apprezzeranno sicuramente. È in arrivo pure un album nuovo e più corposo.

RIPIT, Tsatsa Tushen (Silken Tofu)

Ripit è un barbuto noiser francese che è passato in Italia solo poco tempo fa, proprio per presentare la sua ultima creatura. Tsatsa Tushen consta di cinque pezzi, tutti piuttosto articolati e volutamente figli di una pratica molto affine all’istintività: in fondo, stiamo parlando di noise fatto con le macchine, dove si distinguono le ritmiche selvagge e carnose di “Alaburuku”, gli umori quasi balearic – ma rigorosamente marci e sporchi – della traccia che dà il titolo all’album, tutta stordimento e ballo sfrenato, ma un ballo per alieni. Più in generale, al transalpino interessa fondere il ritmo nella sua fabbrica immaginaria e il risultato finale gli dà ragione. La sua creatura non sarà mai particolarmente aggraziata, data la mole di suoni selvaggi da addomesticare. Non conviene però sottilizzare troppo su questo tipo di proposta, vi basterà chiudere gli occhi e muovervi come meglio credete, immersi in queste musiche assurde, ovviamente sfatti a dovere.

MATTER, Loss (Subsidence)

La voglia di fare da sé, di reiterare pratiche figlie dell’autoproduzione, non si è mai placata. Anzi, con l’avvento di Internet è aumentata. Dunque anche Fabrizio Matrone, meglio conosciuto come Matter, ha deciso di mettere su una piccola etichetta. Il primo parto è il suo, ovviamente, e questo Loss conferma tutte le cose buone fatte fino a oggi. La sua è una musica cerebrale, techno nel midollo, ma dalle forti tinte industrial, con che di sadico nelle ritmiche ad aggiungere un tocco di dinamismo. In Loss sono presenti anche le solite variazioni sul tema che però si fanno apprezzare sin dall’apertura della potente “Failures”. La successiva “Wakeful” scombina le carte col suo andamento meno violento e addirittura quasi melodico, ma sto semplificando. Gli umori teutonici di “Decline”, in chiusura, sono invece la classica randellata finale, a suggello di una prova sempre potente. I collezionisti di cassette sono avvisati, anche perché l’artwork merita.

ADAMENNON & LUCIANO LAMANNA, Iris (Souterraine)

Sembra essere all’insegna dell’indimenticabile lezione-eredità dei Goblin questa collaborazione tra Luciano Lamanna, producer di stanza a Roma, e Adamennon. Quest’ultimo era uscito lo scorso anno con un album parecchio debitore degli autori delle musiche di Suspiria, Le Nove Ombre Del Caos. Dunque è evidente il suo desiderio di continuare lungo un determinato solco, questa volta non da solo. Il risultato è un 12” dai suoni sinistri e malinconici, in alcune parti tendente al calligrafico. Tant’è, l’obiettivo rimane quello di evocare scene di b-movie di stampo horror: immaginatevi delle passeggiate notturne dove da un momento all’altro può avvenire un agguato, in “Iris”, mentre le virate electro-noir di “Nuvola Nera” ricordano vagamente quelle di Zwischenwelt, progetto tedesco con Gerald Donald dei Drexciya. Chiude l’onirica “Fuori Piove”, nella quale le note di piano e i rumori di fondo non fanno altro che evocare altre pellicole dimenticate e decadenti. Come la musica dei due, di certo non per tutti, adatta a chi ama struggersi mentre osserva il mondo da dietro la finestra di una villa infestata.

AVSA, Parallels (Manyfeetunder)

Sergio Albano e Anacleto Vitolo uniscono le loro forze sotto questo nuovo moniker, il cui titolo sembra evocare un altro recente album della piccola etichetta campana Manyfeetunder, quel Margins di Fabrizio Matrone in versione Heidseck del quale ci siamo occupati tempo fa. Parallels assomiglia a un’ideale e fosca linea sonora dove confluiscono le chitarre e le stratificazioni di Albano, mescolate alla pasta elettronica di Vitolo, che in realtà cesella e mixa quello che è di fatto tutta farina del sacco del primo. I risultati sono altalenanti: per una “Paradox 2” e una “Interception” che rumoreggiano fiere c’è una “Ramps – Fluid” interlocutoria, che però si salva in corner grazie a una fase ritmica parecchio intrigante. Siamo di fronte a un esperimento, quindi, nel quale si prova tendenzialmente ad amalgamare una serie di input nient’affatto semplici da gestire. Conosciamo da tempo le gesta di Albano: lui è uno che è passato dal noise chirurgico dei Grizzly Imploded alle evoluzioni electro e post-ambient di Amklon, perciò non deve meravigliare questa virata electro-noise. Il risultato è una serie di suggestioni che forse avevano bisogno di una maggiore incubazione. Al solito, l’artwork di Kanaka Project dà quel tocco di fascino in più all’insieme, ma sui contenuti c’è ancora da lavorare.

Ristampe

MARIA MONTI, Il Bestiario (Holidays Records)

La milanese Maria Monti proveniva da una carriera di cantante pop, aveva pure lavorato con Paolo Poli, ma amava frequentare il giro più scassato della improv italiana dei Sessanta-Settanta, non è un caso che molti degli arrangiamenti di questo disco, uscito nel 1974, fossero opera di Alvin Curran di Musica Elettronica Viva; c’era pure lo zampino di Roberto Laneri dei Prima Materia e di Steve Lacy ai sax , comprese le chitarre di Fabio Balbo e dell’americano Tony Ackerman. Il risultato fu un disco di una bellezza obliqua e straniante, dove spiccavano la classicità e lo spleen di “Dove” mescolate alla canzone felliniana di “Lo Zoo” e al teatro canzone di “No No No No” (qui pensate a una Milva circondata da musicisti che si divertono a confonderla). Per non parlare de “La Pecora Crede Di Essere Un Cavallo”, esperimento avant-pop con voce sussurrata e arrangiamento felicemente a-melodico, o de “Il Letargo”, prova cantautorale intrisa di malinconia e di passaggi quasi à la Tim Buckley e prog. Il Bestiario era un disco che andava finalmente ristampato. La Holidays ha avuto coraggio e ha fatto centro. Complimenti!

SIMON BALESTRAZZI, Early Recordings 1979 – 1982 (Azoth)

Recuperiamo un disco uscito un anno fa circa. Early Recordings è una raccolta dei primi approcci sonori del musicista parmense, ex membro dei TAC (per inciso, una delle band più interessanti e forse sottovalutate degli anni Ottanta). Balestrazzi di fatto si è autoprodotto e curato questa compilation, contenente tracce che risalgono addirittura a fine Settanta, ma non marchiatelo nostalgico, lo dimostra la sua storia di compositore estremo e coraggioso ancora oggi. Il disco probabilmente gli serve per fare davvero ordine tra le registrazioni passate e per tirare le somme della sua ormai prolifica, discograficamente parlando, carriera di agitatore musicale. Ci troviamo di fronte all’ascolto di quelle che, in effetti, sembrano prove, lacerti di composizioni in modalità buona-la-prima, esperimenti veri e propri, quindi non perfettamente riusciti. Da segnalare, le onde radio di “Implacabile Crivello”, posta in apertura, le virate harsh con inserti di uccelli dell’estenuante, oltre venti minuti, “Autoritratto Con Teschi”, quasi una sonorizzazione estrema di “Uccelli” di Alfred Hitchcock. Per il resto, si tratta, come dicevo, di una sorta di compendio giovanile utile per dimostrare a se stesso, forse, di quanto è cambiato e migliorato il suo percorso artistico col passare del tempo.

Rock e dintorni…

MOONDRIVE, S/t (Autoproduzione)

Indie e shoegaze, non c’è molto da aggiungere per definire questa manciata di pezzi onesti e certamente pensati-suonati con la necessaria passione dal toscano Emanuele Cicerchia. Moondrive è la sua creatura, con la quale prova a farci tornare in mente certo pop-rock imbevuto di chitarre, quello che tanto andava di moda a fine anni Ottanta. “Particular” è un brano piuttosto semplice, col pianoforte enfatico a dare un po’ di luce, ma è tutto l’album a risultare simile nei singoli brani: in effetti, non emerge uno in particolare. Probabilmente questo senso di omogeneità è voluto e può andar bene a coloro che sono da sempre amanti di certe sonorità esangui, per tutti gli altri il consiglio è di cercare altrove. Direi che è il caso, per il prossimo disco, di fare uno sforzo in più, soprattutto in sede di scrittura dei pezzi.

PERFECT CLUSTER, Flow (Autoproduzione)

Sono in tre, vengono dalla toscana e hanno fortemente a cuore il rock di matrice anni Novanta. Chiari i riferimenti a Nine Inch Nails, certo grunge, i Ministry meno pesanti, il tutto però fatto ora, a vent’anni di distanza da quando quei suoni andavano per la maggiore. Le basi ritmiche sono inequivocabili, seppur ben incastrate con le chitarre, sempre in evidenza. Il cantato non sembra particolarmente efficace, l’impostazione è sempre debitrice di vari esempi di band americane dell’epoca, nonostante la presenza di una parte vocale femminile che aggiunge colore al tutto. Flow, nelle intenzioni dei Perfect Cluster, dovrebbe essere l’album che può dar loro un po’ di affermazione in Italia, dopo una serie di esibizioni e riscontri all’estero. A conti fatti, rimane un disco mediocre, certamente genuino nelle intenzioni, ma stilisticamente troppo aggrappato al passato: “Slide Out” assomiglia a una take scartata dai peggiori Soundgarden. Mi fermo qui.

LEV, EP2 (Tostapane Zorro Records)

Gli esordienti Lev dicono di aver collaborato via cartelle di Dropbox per completare l’album, dato che i singoli membri vivono tra l’Italia (Padova e Bologna) e il Regno Unito (Londra). EP2 consta di cinque tracce tutte ascrivibili a una forma di pop-rock dai toni epici, all’occorrenza venato di elettronica. Si avverte la necessità di usare più sfumature possibili, stilisticamente parlando. Nell’insieme ricordano una visione scanzonata di indie-rock alla quale aggiungono di tanto in tanto un pizzico di follia: i fiati di “Paranoia Da Ballo”, ad esempio. Nulla di particolarmente esaltante, va precisato, buone però la scrittura dei brani e la produzione, ma è la personalità che stenta a farsi largo.

THE HONKIES, How Do We Prevent The Advance Of The Desert? (Musique à la Coque)

Altra piccola factory dal solido impianto diy, questa di Musique à la Coque di Bari (ricordo un bel progetto a nome Le Ton Mitè di qualche anno fa), a dimostrazione che non è necessario vivere nella classica metropoli per mettere in cantiere interessanti pubblicazioni, nello specifico questa degli inglesi The Honkies.
How Do We Prevent… è uscito in vinile nell’ormai lontano 1989, poi del disco si sono perse le tracce. Il quartetto ha operato per pochi anni, tra il 1987 e il 1993, poi si è sciolto. A quasi tre decenni di distanza, quindi, il disco torna in formato digitale e sembra passarsela ancora bene. La musica proposta è una sorta di funk-rock stortissimo dalle venature jazz, ma suonato in maniera orgogliosamente free, solo apparentemente senza un ordine compositivo prestabilito, bastino come esempio i fiati che danno calore e colore alle strutture armoniche. La loro era una musica felice e al contempo isterica, insomma ci sapevano fare, eccome. Recuperatelo.