POLWECHSEL, Embrace

Assumere il ruolo di recensore davanti a Embrace, l’enorme opera degli austriaci (ma “estesi” all’internazionalità) Polwechsel (Werner Dafeldecker, Michael Moser, Martin Brandlmayr e Burkhard Beins), destabilizza e mina le fondamenta dello scrivere di musica: che cosa sto esprimendo? Un giudizio? Un’opinione estetica? Sto raccontando l’esperienza personale dell’ascolto? Quali sono le coordinate che utilizzo per muovermi in un ambiente sonoro così complesso? Sono valide o, addirittura, legittime?

Si ha l’impressione, o meglio, la certezza, che non si tratti “solo” di musica. I piani, le sfumature e le angolazioni sono vertiginosi in numero, disorientano quasi. Il booklet di una cinquantina di pagine a corredo del cofanetto può darci certo una mano, raccogliendo preziosi contributi di varie personalità che ruotano, o hanno ruotato, attorno alla “creatura” e, in senso lato, alla sua sfera di influenza nel mare magnum dell’improvvisazione contemporanea. Le parole scritte, però, sia nell’elegante libretto allegato, sia in questa o in qualunque recensione, sono a galassie di distanza dall’epifania della scoperta. Camminare attraverso le dieci, lunghe composizioni, suddivise in quattro “abbracci”, è un’esperienza forse inviolabile, inavvicinabile con il linguaggio. Potremmo fermarci qui, con un diplomatico, spassionato invito all’ascolto, ma – pensandoci – si tratterebbe di una resa, un abdicare davanti all’esercizio, forse illegittimo, forse superfluo, del racconto. Andiamo avanti con questa consapevolezza, pronti a mettere costantemente in discussione il ruolo delicato che ricopriamo ogni volta che tentiamo di verbalizzare, cristallizzandola, un’opinione sul flusso impalpabile della musica improvvisata.

Seguendo questa traiettoria dell’instabilità potremmo inquadrare anche Embrace nella categoria degli esperimenti scomodi, del perenne mettersi alla prova nel tentativo di decodificare, con un costante processo collettivo, tensioni e urgenze artistiche. Sia Reinhard Kager che Stuart Broomer (entrambi critici e giornalisti musicali attivi nel mondo Jazz), nel loro prezioso contributo al booklet, tracciano una mappa di riferimenti per il panorama “Improvvisato” contemporaneo, citando spesso “AMM”, “Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza” e “Musica Elettronica Viva”, e sottolineando come Polwechsel, rispetto a queste realtà più o meno parallele, sia stato e continui ad essere un progetto di inversione, un riuscito laboratorio di incontro-scontro fra la spontaneità della free-impro e la razionalità del rigore compositivo. Lo stesso nome del progetto richiama allo scambio di polarità, la deviazione perpendicolare di tendenza, tra l’altro, in maniera radicale, senza una scala di grigi o un momento di decompressione: premo un pulsante e lo scenario si solarizza, appare il negativo dell’immagine.

Embrace è un compendio di tutto questo, un manifesto artistico scritto dopo più di trent’anni di militanza; riesce a riempire quello scarto, molto spesso abissale, fra la teoria “accademica” di certi ambienti musicali contemporanei e la praxis concreta e reale con cui si deve scendere a patti quando si suona con e per gli altri. Un manuale di improvvisazione che mette a nudo l’intelaiatura strutturale del processo di scrittura: così come nell’ormai lontano 1993, la dinamica non è quella di una spontanea, e magari naïve, esplosione di soggettività che si scontrano, si studiano e (forse) trovano una mediazione nell’atto della performance, ma è un gioco di rimandi e specchi fra momento performativo e compositivo, anche asincroni. Prendiamo “Jupiter Storm”, il primo brano del primo disco del cofanetto, firmata da uno dei perni storici dell’ensemble, Werner Dafeldecker: oltre a vantare un fugace ritorno di John Butcher, in una performance nel solito stato di grazia assieme al piano di Magda Mayas, questi diciotto minuti sono il frutto di un’iniziale fase compositiva, metabolizzata poi singolarmente dai protagonisti in altrettanti spazi improvvisativi,  registrati e innestati infine da Dafeldecker in uno scheletro pre-costituito. Anche il secondo disco, con “Chains And Grains” parte 1 e 2, firmate dal violoncellista Michael Moser, deriva da un processo molto simile, con fasi cronologicamente successive orchestrate dall’autore e interpretate dai performer.

Nonostante possa sembrare una classica diade compositore-esecutore, il processo creativo dei Polwechsel parla piuttosto di un ecosistema di ruoli e tensioni non gerarchiche, in costante evoluzione e auto-analisi. Ed è questo un tema che emerge con forza nel discorso meta-musicale che ruota attorno al gruppo viennese: come si posiziona l’individuo nei confronti del collettivo e l’unidirezionalità o meno di questo rapporto. In fin dei conti si tratta di una dimensione “politica” del processo creativo, il disvelarsi dei meccanismi di feedback il cui paziente studio affina l’intimità, leviga l’interfaccia degli attori fino a renderla uno specchio. Il ruolo non è quindi solo la cristallizzazione di un attimo, il solco su di un disco, quanto piuttosto un processo ormai decennale e costante, fatto di interrogativi più che di certezze.

E infine la musica: stiamo parlando di due ore e mezza di materiale sonoro cesellato alla perfezione, scritto, immaginato e suonato da personalità ai vertici della scena “improvvisata” europea. Eppure sono l’incertezza, il processo, il tentativo e mai l’arroganza del talento ad emergere. “Orakelstücke” (contenuta nel quarto ed ultimo “abbraccio”) è una complessa suite firmata da Peter Ablinger (contributo esterno alla formazione odierna dei Polwechsel) e strutturata da parti simmetriche in cui oggetti percussivi, tecniche per no-input mixing, voci, violoncello e contrabbasso sembrano fondersi assieme. È un brano di una bellezza unica perché, oltre a sottolineare l’orizzontalità gerarchica dell’ensemble e il suo costante tendere verso l’incertezza e instabilità, carica di simboli ogni parola improvvisata, ogni oggetto percosso, ogni drone. Pare di perdersi in una foresta in cui qualunque immagine, qualunque suono, porta con sé un significato magico e profondo, inviolabile e, forse, irraggiungibile. Com’è ovvio, anche le altre composizioni ricalcano quanto detto e il viaggio sonoro, per quanto lungo, non risulta faticoso.

Una recensione circolare: cosa abbiamo detto in quasi novecento parole? È stato giusto o legittimo esprimersi davanti ad un’opera come questa? Come spesso accade in questi ambiti il meta-discorso prende il sopravvento probabilmente perché parlare della musica è troppo difficile, o forse blasfemo. Più che un giudizio estetico, in queste righe è contenuta una delle mappe possibili con cui orientarsi. Una condivisione fra pari di uno strumento per accedere alla propria personale esperienza sonora, consapevoli che le strade e i labirinti dei Polwechsel si invertono ad ogni ascolto.