Peter Evans: andare a cercare il rischio

Peter Evans è ormai diventato un punto di riferimento a livello mondiale nella musica di ricerca e nell’improvvisazione libera. Se c’è qualcuno che ha superato i limiti tecnici conosciuti della tromba questo è lui. I suoi dischi di tromba sola rivelano delle scoperte ad ogni riascolto, non è da meno dal punto di vista compositivo. Questa intervista è stata fatta ad ottobre 2020, lui si trovava a Boston e, diversamente dal solito, non aveva concerti in programma.

Quando hai cominciato a suonare la tromba?

Peter Evans: Avevo 7 anni, i miei erano appassionati di Jazz e avevano visto un sacco dei grandi dal vivo come Dexter Gordon o Miles Davis o Sonny Rollins, c’era sempre questo tipo di musica in casa. Mia sorella suonava il violino, e mi chiesero se volessi suonare qualcosa. C’era un direttore di banda in pensione che viveva sulla stessa via e fu lui a darmi le prime lezioni anche se non era un trombettista. Dopo qualche anno cominciai ad andare a lezione da un vero insegnante di tromba.

Sono stato immerso nella musica Jazz fin da piccolo e molto presto ho cominciato ad improvvisare, quindi non è mai stato un problema per me farlo. Altri musicisti che vengono dalla classica, se non hanno avuto un primo contatto con l’improvvisazione abbastanza presto, fanno difficoltà ad entrarci, fortunatamente per me non è stato così.

Il mio percorso accademico è di tipo classico, ho suonato in orchestre giovanili e studiato tutto il repertorio classico, compresi ovviamente i concerti di Haydn e Hummel e simili. Parallelamente ho sempre anche suonato e studiato jazz.

Quali sono stati per te gli insegnanti più importanti?

C’è stato un insegnante di pianoforte alle superiori. Avrei dovuto prendere lezioni di piano da lui, ma erano lezioni di musica. Un giovane pianista jazz e blues, David Zofer.

Se il tuo insegnante è un trombettista e suoni tecnicamente bene, è abbastanza per lui. A Zofer non interessava che io suonassi bene la tromba: “suoni bene, ma il tuo linguaggio jazz fa schifo”, mi diceva. Mi trattava come trattava i pianisti in termini di conoscenze armoniche o ritmiche. Mi ha fatto ascoltare un sacco di musica senza tromba come Charlie Parker, Stravinsky o altro che non aveva nulla a che fare con quello che ascoltavo all’epoca come Lee Morgan… Mi ha aiutato a capire che nel mondo c’è molto altro rispetto alla tromba.

Una volta stavo facendo un concerto jazz nella scuola e c’era lui ad ascoltare, io ero soddisfatto di come avevo suonato ma il suo commento fu “hai suonato solo pattern trombettistici, non lo stai facendo veramente. Dobbiamo lavorarci”. Probabilmente è stato l’insegnante più importante per me, era l’età giusta. Più tardi arriva un’età in cui pensi di sapere tutto e non sei aperto a critiche ed insegnamenti: non era ancora quel momento.

Come organizzi il tuo studio quotidiano sullo strumento?

Prima di tutto faccio il mio warm up, molto leggero. Comincio con esercizi sugli armonici partendo dal Fa# basso. L’intento è quello di allenare le labbra e tutto quanto dal basso verso l’alto ossia partendo dal punto dove sono più rilassato salendo fino a non oltre il do acuto, suonando sempre piano e stando leggero. Lo faccio lentamente per sentire l’aria che fa scattare l’armonico superiore. Sono molto metodico, lo faccio ogni giorno ovunque io sia. Comincio con una quinta, poi arrivo all’ottava e poi espando fino a due ottave su ogni posizione. Dopo di che riempio gli intervalli con le scale. Non uso articolazione e faccio solo attacchi d’aria, senza lingua. Restando più piano possibile e lentamente. Fatto questo riparto dal basso e faccio scale cromatiche su tutto il registro con lo staccato singolo facendo attenzione ad avere un attacco uniforme su tutta l’estensione e ad utilizzare l’aria, la lingua da sola non fa nulla.

Il warm up finisce quando funziona tutto e tutte le note del registro funzionale sono facilmente accessibili e suonano bene. A questo punto comincio una parte dello studio un po’ più creativa mantenendo comunque l’attenzione su tutti gli aspetti tecnici: il suono deve essere pulito, gli attacchi devono essere puliti, se qualcosa non viene bene lo ripeto fino a che riesce, indipendentemente da cosa studio.

Non studio improvvisazione, piuttosto ipotizzo degli scenari che potrebbero capitare durante un’improvvisazione. Studio variazioni su qualcosa cercando di essere a mio agio, questo prende un sacco di tempo.

Il mio studio dell’improvvisazione è cambiato negli anni ed è diventato sempre più specifico. Se sto studiando qualcosa, studio le variazioni su quella cosa, mi registro molto e riascolto per capire se quello che sento suonando si percepisce anche da fuori. Cerco sempre di trovare quello voglio in mezzo a quello che faccio, rifinirlo e renderlo interessante per me. Non è come studiare un concerto di musica classica, che ad un certo punto finisce ed è pronto, questo è un processo senza fine, continuo a cercare, a lavorare sulle stesse variazioni per mesi o anche anni. Durante i concerti le cose che studio vengono fuori da sole, non le forzo.

Quante ore dedichi allo studio quotidiano?

Dipende, se ho tempo libero studio 3 o 4 ore. Molte delle cose che faccio non si possono studiare per 10 ore, richiedono molto dal punto di vista della resistenza, quindi suono finché riesco poi semplicemente mi fermo. Solitamente faccio un’unica sessione di studio e lavoro su molte cose diverse.

In questo periodo sto cercando di riprodurre l’articolazione di Clifford Brown, quando improvvisa articola quasi ogni nota indipendentemente dalla velocità. Ad esempio studiando lavoro su un fraseggio simile al suo poi cerco di adattare il tipo di articolazione al mio fraseggio.

Alle volte studio cose che non hanno nulla a che fare con quello che sto facendo in generale.

Ricapitolando: faccio il warm up, controllo che tutto funzioni correttamente, poi lo studio è diviso in un paio di parti principali. Una di queste è il lavoro sulla tromba sola: studio modi di manipolare e sviluppare materiale nuovo qualsiasi esso sia, ad esempio studio variazioni ritmiche. Studio anche gli errori: trovo un modo in cui potrebbe andare storto qualcosa e lo studio per capire se può diventare interessante, cerco di incorporare l’errore.

La seconda parte la dedico allo studio dei brani jazz, lavoro col metronomo agli estremi ad esempio suono un brano col metronomo a 10 o 5 bpm. Molto spesso faccio cose molto semplici come suonare brani in diverse tonalità. Il motivo per cui lo faccio è che mi piace suonare sugli standard e poi perché trovo sia molto buono per lavorare sulla relazione tra cervello e strumento. Permette di manipolare cambi di registro in modo naturale mentre si studia altro.

La terza parte dello studio la dedico a cose libere, se ho ancora voglia di suonare trovo qualcosa da fare come ad esempio prendere un brano di Bach per pianoforte e cercare di renderlo con la tromba.

Quale secondo te è l’aspetto più importante da curare e sviluppare giorno per giorno?

Quando suoni musica classica può capitarti di fare un errore, ma il minimo sindacale è che tu sia in grado di suonare un brano senza sbagliare nulla. Quella è la base per essere “parte del club”, oltre a questo devi essere un artista, devi essere espressivo… Parallelamente nella musica improvvisata, a parere mio, se non sei presente al 150% nell’istante e non accetti tutto quello che succede in quell’istante, allora non sei “parte del club”. Quello che devi fare nell’improvvisazione libera è dire “ok, adesso chiudo gli occhi e mi butto da questa scogliera”, è esattamente quello che è. Se vuoi improvvisare, lo devi fare, devi buttarti. Se ho fede in tutto questo la cosa che devo fare è prepararmi, e la preparazione deve essere rigorosa e deve essere seria. È praticamente un ossimoro, stai pianificando e ti stai preparando per un momento che non è pianificabile e prevedibile.

È come se tu sapessi che tra un anno ti porteranno in mezzo ad una foresta e tu dovrai sopravvivere. Per poterlo fare ti prepari: ti procuri un coltellaccio, impari a costruire qualsiasi cosa con oggetti che trovi in natura, impari a pescare, a pulire la selvaggina che cacci, impari tutte queste cose di modo che quando sarai in mezzo alla foresta e verrai attaccato da un orso non ti troverà impreparato. Non vuol dire che puoi prevedere quello che succederà, ma fai in modo di essere pronto a qualsiasi cosa, fai in modo di essere più forte, più reattivo… Ma poi dopo tutta la preparazione, quando improvvisi te ne devi fregare, devi avere fiducia in quello che può succedere perché non puoi controllarlo.

Può capitare che tu abbia delle brutte performance e delle ottime performance, quello che devi fare è alzare il livello di quelle brutte perché quelle buone ci saranno sempre. Se il tuo livello minimo è più alto non ti devi preoccupare, ti sarai comunque guadagnato la serata anche nelle giornate peggiori. I grandi improvvisatori possono avere delle pessime serate ma comunque fare delle buonissime performance. Fiducia in quello che facciamo e preparazione per quello che facciamo come se non ci fidassimo di quello che può succedere, è molto strano me ne rendo conto, non è per tutti.

Quando sei più sicuro di te, vai a cercare il rischio, devi cercare il rischio. Se smetti di cercarlo allora cosa stai facendo realmente?

Tutto il materiale che studio lo studio tenendo in mente che alla base c’è il rischio, è tutto materiale che se fosse spinto appena un po’ di più crollerebbe. Adesso costruisco materiale per il mio linguaggio tenendo presente questa cosa, per esempio materiale che funziona solo se eseguito perfettamente non è adatto all’improvvisazione. È per questo che pratico anche gli errori possibili, la domanda che mi pongo è: come reagisce questo materiale se lo spingo in una direzione diversa da quella che prenderei usualmente? Se reagisce in modo che ritengo interessante allora quel materiale è utile all’improvvisazione e ci posso lavorare. Ci ho messo del tempo ad elaborare questa necessità perché quando costruisci il tuo linguaggio puoi fare quello che vuoi.

L’improvvisazione libera è un tipo di musica che richiede una capacità di ascolto matura, non è una musica che si ascolta a 12 anni senza prima aver fatto un percorso che porta alla sua complessità. Com’è stato per te?

Sì, è un po’ come la droga, c’è qualcosa di strano, qualcosa di scomodo, ma ti piace e ne vuoi di più, ma non piace a tutti.

Una delle mie droghe di passaggio è stato il disco Miles Davis at Newport 1958, c’è Coltrane che suona ancora dentro ma il sax è un po’ matto, suona più note che può, e ricordo che da ragazzino ascoltarlo mi faceva quasi arrabbiare, ma contemporaneamente non potevo smettere. Continuavo ad ascoltare quella cassetta e ad innervosirmi, potevo sentire la temperatura corporea alzarsi, come quando qualcuno continua a colpirti per infastidirti. Nonostante non fosse una sensazione piacevole non smettevo di riascoltare la cassetta ricercando quel sentire. Poi andai a cercare altra musica che potesse farmi sentire allo stesso modo. E non era perché capivo cosa stesse facendo Coltrane, musicalmente non ne avevo idea all’epoca, mi piaceva il sound.

Parlando di tromba sola, ho visto in alcuni tuoi vecchi video che usavi un amplificatore

Sì, molto tempo fa. Mandavo il mio segnale in un pedale del volume e in un amplificatore, cercavo di ricreare una sorta di compressione. Ma l’ampli per chitarra aggiunge colore ed io volevo solo avere più volume, non volevo distorsione o altro. Così ho cominciato, dove possibile, ad usare un microfono collegato a un PA con casse e subwoofer. Gestisco il mixaggio semplicemente sfruttando la distanza dal microfono. Se sono in una sala grande, con un PA, posso farmi sentire anche facendo suoni minimali come soffiare nello strumento. Posso modulare l’aria grazie allo strumento e l’impianto di amplificazione mi permette di mantenere tutte le caratteristiche di un suono silenzioso ma ad un alto livello di decibel. Si tratta semplicemente di compressione audio, nel pop viene usata normalmente. Usando la normale tecnica di produzione del suono con la tromba, maggiore è il volume, maggiore sarà il numero di armonici contenuti nella nota che sto suonando, viceversa, suonando pianissimo, ottengo un suono che è quasi una sinusoide e, mettendo la campana dello strumento molto vicino al microfono, per il pubblico il volume sarà comunque alto ma il suono manterrà un carattere molto intimo. È assolutamente irrealistico, lo so, ma mi piace il risultato nei concerti e quindi cerco di riprodurlo nelle registrazioni usando molta compressione, anche distorsione in certi casi.

Quando suoni acustico, suoni diversamente? Cerchi di ottenere lo stesso risultato o eviti alcune sonorità preferendo altre?

Suonare acustico è un’altra cosa. Quando suoni acustico sei un attore, devi giocare con la stanza, l’acustica, il pubblico. Con l’amplificazione è rock and roll, vai e fai il tuo show PER il pubblico. In acustico devi suonare CON il pubblico. Non è che non faccia cose che non penso funzionerebbero, devo relazionarmi con l’acustica della stanza e con la chimica che c’è col pubblico. Multiphonics o altre tecniche estese potrebbero essere meno efficaci in acustico. In stanze molto grandi potrebbe non aver senso cercare dinamiche estremamente basse, all’opposto in posti piccoli dinamiche troppo forti.

A volte il pubblico è molto attento e puoi portarlo con te e rischiare di più, altre volte senti la necessità di richiamare l’attenzione continuamente ed in quei casi è più difficile. Ma non sono pensieri che faccio mentre suono e nemmeno scelte fatte a priori, è semplicemente la percezione della situazione, non c’è tempo per giudicare o valutare.

In molti, me compreso, considerano il tuo lavoro come un’espansione dei limiti dello strumento e non solo, era nei tuoi piani? 

Non penso ad espandere limiti, piuttosto penso alla consistenza e all’adattabilità. È una ricerca. Cerco cose che abbiano longevità, che so potrò usare per molto tempo. Molta musica con la tromba non è per nulla nuova, è nuova solo sullo strumento. Penso alla praticità, a cose semplici, voglio cose che posso suonare facilmente nel mezzo del secondo set o tra 25 anni. Se espando i limiti sono i limiti di qualcun altro, non è un mio obiettivo. Non considero il disegno più grande, mi preoccupo della mia ricerca, non dò peso al pensiero degli altri, lavoro su una cosa sperando che sia interessante per me. Se sarà interessante per me, probabilmente lo sarà anche per altri.