NADJA, Labyrinthine

Faccio anche quest’anno i compiti.

I Nadja hanno registrato Labyrinthine contestualmente a Luminous Rot (Southern Lord, 2021), ottimo ed eclettico, ma non parliamo della stessa cosa. Le tracce, anzitutto, anche se conservano un sound bruciante di chitarra ormai riconoscibilissimo, vanno molto più lunghe, fino allo sfinimento, non una novità per un progetto che ignora dall’inizio regole e limiti. La differenza grossa, invece, sta nel fatto che il microfono è in mano ad ospiti: Alan Dubin (non ve lo voglio ripresentare), Rachel Davies degli Esben And The Witch, Lane Shi Otayanii degli Elizabeth Colour Wheel, dei quali non ho mai sentito parlare, e Dylan Walker dei Full Of Hell, dei quali sentiamo tutti parlare. Aidan Baker è un ottimo scrittore di testi, come dimostra poi quest’album, ma non credo nasca cantante, dunque per i fan è bello sentire come potrebbe essere la band se lui accentrasse meno. Un esperimento simile era avvenuto con Already Drowning, che però era un disco musicalmente a sé stante a nome Baker e non Nadja.

Dubin è impeccabile nella sua animalità, Davies, assai languida e malinconica, è una sorpresa almeno per me, perché il suo gruppo principale non mi è mai piaciuto, e la Otayanii mi ha convinto ad ascoltare la sua band. Walker, infine: straziante, bavoso e in grado di guardare dritto negli occhi proprio zio Alan.

Fatta eccezione per il pezzo con la Davies, Labyrinthine è molto autocompiaciuto, perché in sostanza sono i Nadja in versione meno “dream” e molto più doom del solito, e per un tempo che solo gli stakanovisti del male accettano. Questo non vuol dire che sia un brutto disco. Ma attenzione.