Mirco Ballabene: la qualità erotica della musica

Mirco Ballabene è un contrabbassista sul quale ci eravamo già soffermati, in una delle puntate di Notizie dal diluvio in occasione di un bel disco in trio dedicato alla poesia di Andrea Zanzotto. Ora torna con un lavoro in quartetto (Right To Party), con Lorenzo Binotti (a piano e live electronics), Piero Bittolo Bon (a sax alto, clarinetto basso e live electronics) e Massimiliano Furia, già suo sodale nel disco di cui sopra, a batteria, percussioni ed oggetti. Pubblicato da Niafunken a fine 2020, è un lavoro eccellente, che tracima inventiva e personalità: quattro lunghe tracce che dischiudono mondi. Era il caso di approfondire con il responsabile. 

Il diritto di far festa: il titolo del disco nasce da altro ma anche ultimamente questa idea pare riemergere, con i discorsi sulla movida e gli assembramenti. Mi racconti e mi dai il tuo punto di vista? 

Mirco Ballabene: Il titolo nasce durante il periodo degli attentati di matrice islamica di qualche anno fa in Europa al Bataclan, allo stadio di Parigi, sul lungomare di Nizza e all’aeroporto di Bruxelles: tutti luoghi che sono legati al divertimento, al tempo libero e al viaggio. E ricordo quanto all’epoca la risposta comune a questi tragici eventi fosse stata quella di dover difendere il proprio stile di vita, senza tentare, almeno da parte dei più, un’analisi più approfondita delle responsabilità occidentali nella genesi di questi atti estremi, come se l’Europa fosse la roccaforte della civiltà e assistesse inerme a una barbarie a lei totalmente estranea. Alla fine questo “difendere il proprio stile di vita” mi sembrava soltanto un modo per dire al mondo che volevamo continuare a goderci il nostro benessere restando sordi a tutto il resto. Ricordo benissimo un commento di un ragazzo su un social che si lamentava perché non avrebbe potuto più serenamente prendere un aereo per andare in vacanza, senza rendersi minimamente conto di quale privilegio egli usufruisse rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Avendo impiegato cinque anni per comporre, provare e registrare la musica di Right To Party, il nome mi sembrava ormai non avesse più quell’emergenza legata all’epoca in cui era nato, ma poi sono arrivati il Covid e le polemiche sulla movida. Cosa ne penso? Penso che il coronavirus, se ce ne fosse stato bisogno, ha definitivamente dimostrato che la società occidentale è debole, perché non ha alcuna prospettiva oltre a quella dello svago del fine settimana. È una società che non è una comunità capace di organizzarsi e di lavorare insieme per affrontare una minaccia comune. D’altronde è quello che ci ha insegnato il finanzcapitalismo, ognun per sé e si salvi chi può. Anche a me manca tantissimo andare in un locale e bere insieme agli amici come si deve, ma di fronte a un dramma del genere mi sarei aspettato più responsabilità e invece mi sembra che la gente preferisca rischiare una malattia che può essere anche molto grave piuttosto che privarsi della gioia dell’aperitivo. Bisogno di socialità? Mah, a me pare più bisogno di non pensare alla propria vita senza un ideale di futuro: nel vuoto ideologico dell’eterno presente in cui ci si trascina fra un fine settimana e l’altro, l’unica salvezza è lo spritz.  

Sempre sul “divertimento”, ecco una frase, che trovo azzeccatissima, dell’Ayatollah Khomeini: “È consentito ascoltare musica purché non sia per divertimento personale”. Cosa cerchi nella musica quando suoni? 

Cerco di creare una musica che in quel momento abbia un grado di necessità e presenza il più elevato possibile, qualcosa che non possa essere percepito come una forzatura, anche se quello che sto suonando è tecnicamente complesso. Cerco di non ostacolare il flusso della musica, e allo stesso tempo cerco di guidarlo per far sì che non si ricada nel cliché o nella facile soluzione, anche se a volte può capitare che pure l’esito più naturale sia quello più giusto, così da assumere, in quel momento, un’inconsueta e rinnovata prospettiva. Tutto ciò è finalizzato all’emanazione di un’energia che in qualsiasi caso deve partire dalla musica che sto creando e arrivare a chi mi ascolta, evitando ciò che Xenakis ha definito un “deserto di sterilità”. Penso sempre che vorrei creare una musica che investa l’ascoltatore e che lo richiami all’attenzione immediatamente, cioè senza mediazioni di tipo culturali o intellettuali, anche se quello che sto creando estemporaneamente o che ho composto in mesi è frutto di riflessioni maturate in anni o di procedure matematiche. Penso anche a quella che Stefano Scodanibbio chiamava la qualità erotica della musica, cioè la sua capacità di attrarre l’orecchio e di innescare reazioni chimiche che precedano il pensiero. Insomma, per me la riflessione sulla musica deve avvenire prima e dopo la musica, non durante il suo farsi, altrimenti significa che il flusso è interrotto e ho bisogno della razionalità per giustificare quello che sento, mentre la musica deve giustificarsi da sé. 

Raccontami di questo disco: come nasce, come avete lavorato, il tuo rapporto con gli altri musicisti del quartetto? Quattro pezzi, di cui uno di oltre venti minuti: non hai velleità di passare alla radio (detto da uno che apprezza moltissimo le lunghe durate)… 

Ho sempre sentito il bisogno di comporre musica mia, ma tutte le volte che iniziavo smettevo dopo la prima battuta, perché ero sopraffatto da troppe influenze contrastanti che mi avrebbero fatto procedere al buio, senza una direzione precisa. Poi l’incontro con la musica di Steve Lehman, Tim Berne, Matt Mitchell e degli ultimi Steve Coleman ed Henry Threadgill, ascoltati in maniera attenta tutti nello stesso periodo, mi ha dischiuso un mondo in cui mi sono fortemente riconosciuto e ha fatto sorgere in me l’esigenza di comporre, andando anche a studiare, quando ci sono riuscito, i loro spartiti. La teoria dei pitchsets di Allen Forte, il serialismo e, più in generale, la realizzazione che per comporre qualcosa che mi soddisfacesse avevo bisogno di costruire delle strutture normative a priori che mi indicassero la strada, hanno poi fatto il resto e così i brani sono nati in un periodo di tempo relativamente breve. Con Massimiliano e Lorenzo stavo già lavorando ad altri progetti quando ho proposto loro i brani di Right To Party (con Massimiliano stavo frequentando il laboratorio di Stefano Battaglia a Siena Jazz, laboratorio che avrebbe portato alla registrazione del mio precedente disco, Oltranza Oltraggio – La Beltà, mentre con Lorenzo era già attivo il duo PVAR, in cui lui però suona solo l’elettronica e non il pianoforte). Piero, invece, l’ho contattato appositamente per questo progetto, infatti prima non avevamo mai suonato insieme.

Prima di registrare abbiamo cercato di provare il più possibile, anche se le distanze geografiche che ci separano (solo io e Lorenzo viviamo vicino), non hanno reso sempre facile incontrarsi. Proprio per questo motivo io ho cercato di arrivare alle prove sempre con le idee abbastanza chiare sugli arrangiamenti, anche se poi alcune soluzioni di cui oggi, riascoltando il disco, sono molto soddisfatto, sono scaturite dal confronto tra noi. E comunque, dato che il tempo di gestazione è stato molto lungo, quasi due anni, c’è stata la possibilità di cambiare strada in corso d’opera, cestinare parti e comporne di nuove. Per quanto riguarda la lunghezza dei brani, credo che il motivo risieda nel fatto che quando trovo un’idea che veramente mi convince, mi piace sviscerarla per ricavarne più materiale possibile, così da poter far respirare la composizione, magari ritrovandosi al punto di partenza dopo essere passati per differenti quadri sonori. Quando ascolto musica, soprattutto jazz moderno, troppo spesso sento dei brani con ottime idee che non vengono sviluppate a dovere, brani che, insomma, finiscono prima di iniziare e questo mi rammarica, perché mi pare che ci sia una tendenza a gettare via troppo presto del materiale che chissà a quale meraviglioso sviluppo avrebbe potuto dar vita. Ovviamente mi piacerebbe passare per radio, ma non voglio che questi calcoli si frappongano tra me e la musica, perché non sarei veramente soddisfatto di quello che faccio. Poi se un giorno avrò voglia di scrivere brani più brevi, non mi porrò certo problemi.

Sento anche un che non di strettamente jazz, nel lavoro (ad un certo punto un tuo giro nel primo pezzo mi ha fatto pensare ai Primus), mentre in altri momenti sento una tensione simile a quella che si avverte di solito nei lavori di Berne. Sono fuori strada? 

Conosco ovviamente i Primus, ma, nonostante nasca come bassista elettrico, non li ho mai ascoltati più di tanto, perché ho sempre trovato la bravura tecnica di Claypool talmente debordante che spesso i brani si esauriscono nei suoi incredibili e allucinati giri di basso. Ma il fatto che ti abbia fatto pensare ai Primus, mi fa solo che piacere, perché sono contento che nel progetto si percepisca una certa vena punk metal rock, per così dire. Mentre per quanto riguarda Berne, non posso e non voglio nascondere che Snakeoil è una delle ispirazioni che stanno alla base di questo quartetto, soprattutto nel modo in cui vengono composte le parti di pianoforte e certi passaggi tematici. Inoltre mi ha ispirato molto il suo modo di alternare parti composte molto complesse ed estese a momenti altrettanto lunghi di improvvisazione totale. Insomma, considero gli Snakeoil un gruppo già entrato nella storia della musica creativa e, se vogliamo, del jazz, aprendo a nuove possibilità compositive ed espressive. Poi, come ho già accennato, credo che siano riemerse anche certe movenze della musica metal che ascoltavo da adolescente e che nel periodo della scoperta del jazz trovavo limitanti. Oggi invece penso che anche quelle esperienze d’ascolto siano state importanti, perché bagnate alla fonte del jazz, dell’improvvisazione radicale e della musica contemporanea, sono entrate in Right To Party per la porta principale, sia nell’attitudine direi oscura e spesso aggressiva del progetto, sia in specifiche parti composte. 

La musica creativa in Italia: come stiamo dal tuo punto di vista? Musicisti, ascoltatori, critici (con la k, se vuoi alla Kossiga) situazioni, risorse, prospettive post-pandemia? 

Non sono un critico, quindi non ho una conoscenza completa del panorama italiano, infatti credo di conoscere soltanto una minima parte dei progetti più o meno stabili e ancora attivi. Detto questo, mi sembra che ci siano molti musicisti e molto preparati che si interessano all’improvvisazione e alla musica creativa. Io, dal mio punto di vista, vorrei sentire più progetti che lavorano sulla composizione assumendosi più rischi, invece mi sembra sempre che in Italia la creatività sia molto associata all’improvvisazione e poco alla composizione. Inoltre a volte vedo classificati come creativi progetti che alla fine suonano come degli anni Settanta edulcorati e questa cosa non la capisco, sinceramente: se suoni post-free, non stai facendo musica creativa, stai facendo post-free, un meraviglioso genere musicale di cinquant’anni fa. Così d’altronde come l’improvvisazione radicale, che in Europa ha una tradizione ormai consolidata e storicizzata, anche se le capacità tecniche e la creatività dei singoli musicisti possono portare sempre un certo grado di innovazione. Per questi motivi penso che una “nuova” strada si possa trovare ponendo a confronto la composizione accademica del Secondo Novecento con l’improvvisazione, ed è in effetti la direzione che stanno percorrendo i musicisti che più mi interessano e che sempre di più vorrei percorrere io. Per quanto riguarda la stampa, a volte mi piacerebbe leggere recensioni più critiche e meno descrittive, recensioni, cioè, che considerino anche in prospettiva storica quel determinato progetto, nel suo rapporto quindi con le opere che lo hanno preceduto e nella possibile influenza sulle opere a venire, questione che ritengo fondamentale per una musica che voglia essere veramente creativa, altrimenti si tratta sempre di uno stanco ripetersi di generi che, nati creativi, ormai sono completamente codificati. Inoltre vorrei leggere critici che abbiano il coraggio di assumere una posizione anche forte, invece ormai ogni genere e sottogenere musicale ha i suoi recensori, quindi spesso va a finire che tutti parlano bene di tutti, andando un po’ a perdersi la funzione del critico che, per me, sarebbe anche quella di indirizzare l’ascolto e, a totale, libera e insindacabile libertà dello stesso, di stroncare. Sulle situazioni e sulle prospettive post-pandemia non penso che cambierà qualcosa di significativo rispetto al periodo precedente, ma spero di sbagliarmi. Chi si occupa di musica creativa fa una gran fatica a proporla dal vivo e spesso, quando ci riesce, le situazioni non sono dignitose per i musicisti che si ritrovano a suonare senza un decente riconoscimento economico. Ma non credo che ciò riguardi solo l’Italia. 

Quali sono stati e sono i contrabbassisti importanti nel tuo percorso? Io negli ultimi tempi ho ascoltato e apprezzato i dischi di Eric Revis, di Michael Formanek, e ancora non mi posso scordare quando ho visto dal vivo Barre Philiips. Mi fermo coi nomi per lasciare spazio a te!

Tu citi dei grandi contrabbassisti, anche se Revis è quello che conosco di meno, ma se devo fare i miei nomi partirei da Silvia Bolognesi, il cui incontro, per me, è stato una tappa fondamentale del mio percorso, perché, in primo luogo, ha contribuito con una bella iniezione di autostima, stimolandomi moltissimo nello studio dello strumento e, soprattutto, spingendomi a propormi senza farmi troppi problemi (e io di problemi me ne son fatti sempre un sacco!). Inoltre è stata la prima volta che ho studiato con una professionista nell’ambito della musica creativa e questo mi ha permesso anche di confrontarmi con lei su tante questioni che per me, vivendo in provincia e conoscendo pochissimi musicisti, erano solo oggetto di speculazione astratta. Invece, parlando di contrabbassisti che purtroppo non ho avuto l’onore di conoscere, per primo citerei Peter Kowald, che per me rappresenta l’ideale del contrabbassista improvvisatore: il rigore e la varietà con cui creava i suoi gesti e la presenza con cui sviluppava il suo percorso improvvisativo hanno dell’incredibile. Poi ti direi Mark Dresser, che invece per me rappresenta l’ideale del contrabbassista che per improvvisare utilizza anche le tecniche sviluppate sullo strumento nella musica contemporanea. Infine, ma non per importanza ovviamente, dovessi scegliere fra tanti altri grandi contrabbassisti (penso a Léandre, Guy e Roccato), non posso non nominare Stefano Scodanibbio, i cui brani, oltre ad essere bellissimi, sono una miniera inesauribile di tecniche che possono essere trasportate anche nel mondo dell’improvvisazione e di cui non gli sarò mai abbastanza grato. 

Come ti sei avvicinato a questo tipo di musica: hai avuto un’illuminazione, è stato un cammino graduale, o frutto di qualche rivelazione improvvisa?

È stato un cammino lentissimo e spero che non sia già finito! Non sono cresciuto in una famiglia di intellettuali o musicisti. Mio padre ha sempre ascoltato musica, soprattutto la canzone italiana (ricordo in particolare Venditti e Zucchero; solo da adolescente ho scoperto le sue cassette dei Deep Purple e dei Pink Floyd), quindi non capisco neanche come io possa essere arrivato a fare quello che sto facendo! Durante l’adolescenza c’è stato l’incontro con il metal, soprattutto crossover e nu-metal: Rage Against The Machine, Korn (i primi due dischi in particolare), Limp Bizkit (il primo incredibile disco che nessuno ricorda), Tool, Deftones, Pantera, Machine Head…, periodo che mi ha visto nascere come appassionato di musica (comunque il mio primo grande amore sono stati gli Iron Maiden!). Poi, mentre studiavo basso elettrico nella scuola di musica del paese, sono stato coinvolto in un quintetto jazz: in pratica ho iniziato a suonare jazz prima di iniziare ad ascoltarlo! Di lì in poi, nel corso degli anni è aumentato l’interesse per le forme più sperimentali e creative di musica improvvisata, ma anche l’interesse per la musica classica e contemporanea. Se durante i miei venti anni mi avessero detto che un giorno avrei inciso un disco a mio nome, gli avrei semplicemente risposto: “E perché?”. Non mi passava proprio per la testa di fare una cosa del genere, perché per me la musica era solo una passione da coltivare nel tempo libero, anche se il percorso col contrabbasso classico al conservatorio iniziava ad impegnarmi sempre di più. Poi verso i trenta, in maniera abbastanza casuale, sono stato coinvolto in un trio con il flautista Fabio Mina e il batterista Danilo Rinaldi, per realizzare Vìreo, un disco prodotto da Markus Stockhausen. A quel punto è scattato qualcosa e ho pensato che in fondo anche io avrei potuto dire la mia. Insomma, un cammino lunghissimo che già ora mi ha portato dove mai avrei immaginato e che spero continui.

Raccontami i tuoi classici cinque dischi da isola deserta e cosa stai ascoltando ultimamente

Ci metto mezz’ora per scegliere una pizza al ristorante, figurarsi cinque dischi da ascoltare per il resto della vita! Comunque mi tocca, quindi opterei per qualcosa dei Talking Heads, probabilmente Stop Making Sense, non perché sia particolarmente affezionato a questo disco, ma perché penso che racchiuda alcuni dei loro brani migliori e forse la migliore versione di Psycho Killer in assoluto. Poi porterei Was Da Ist, disco in solo di Peter Kowald, perché mi sembra la manifestazione più completa ed evidente della sua personalità musicale. Poi un’incisione di Pléiades, opera per 6 percussionisti di Iannis Xenakis, perché, in primo luogo, in un’isola deserta ci sta proprio bene! Inoltre mi piace molto l’immediatezza dell’energia che il compositore greco riesce a trasmettere con la sua musica e questo è uno dei brani in cui sento il suo primitivismo al massimo grado. Il quarto sarebbe Brilliant Corners di Thelonius Monk, perché adoro Monk e non saprei quale disco scegliere, sinceramente, ma forse questo è quello che ho ascoltato di più. Infine, per cercare di tenere in considerazione un po’ tutti gli stati d’animo, Aenima dei Tool, un vecchio compagno che, nonostante siano passati più di vent’anni dal primo ascolto, non mi delude mai. Intendiamoci, non sono uno di quelli che pensano che i Tool siano finiti con quel disco, infatti anche l’ultimo lavoro mi piace molto, però Aenima è sempre Aenima, c’è poco da fare.

Ultimamente sto ascoltando Berio (in particolare la Sinfonia, il concerto per due pianoforti e “points in the curve to find”), Big Balloon dei Dutch Uncles, Binary di Anna Webber e Polygon dell’Erik Hove Chamber Ensemble.

Il tuo primo ricordo musicale. 

Febbraio 1989, non ho compiuto otto anni e una sera, prima di andare a dormire, vado in cucina a bere un bicchier d’acqua. Mentre torno in camera mia, la mia attenzione viene attratta dalla televisione in salotto. C’è un tizio vestito in jeans con un cappello da cowboy marrone che saltella sul palco del Teatro Ariston di Sanremo: è Jovanotti che canta “Vasco”. Mi son fermato fino alla fine del pezzo. Qualche mese dopo la cassetta de La Mia Moto, comprata da un venditore ambulante in spiaggia, è il primo disco che ascolto per intero nella mia vita. Questo è il mio primo ricordo musicale, che ci vuoi fare! Come ho già detto, non sono cresciuto in una famiglia di intellettuali che ascoltavano classica o jazz, anche se mio padre mi ha sempre spinto ad avvicinarmi alla musica, anche a suonarla, infatti fu lui che mi propose di iniziare lo studio della tastiera alla fine della scuola elementare, anche se per suonare nei piano-bar! Esiste più il piano-bar?!?!

Come te la stai cavando in questo periodo, suoni con altri a distanza? Come vivi tutta questa situazione? Io personalmente non riesco molto a vedere dei live in streaming e non credo di avere intenzione di rassegnarmi a farlo, non ancora, almeno. 

È stato ed è un periodo di intenso studio sullo strumento, oltre che di scrittura, anche perché studio composizione contemporanea al Conservatorio di Fermo con Marco Momi. Poi cerco di portare avanti i miei progetti anche a distanza, almeno per quanto riguarda la fase di ideazione. Mi è capitato di suonare a distanza con qualcuno, ma non in tempo reale, che per l’improvvisazione è qualcosa di abbastanza assurdo, anche se il fatto di doverti impegnare nella produzione musicale, comunque ti mantiene attivo, anche se non lo fai davanti a un pubblico presente di fronte a te, ma che ti ascolterà chissà quando. Ad esempio, sono entrato a far parte di questa comunità di musicisti europei, Composers and Improvisers Community, per cui mensilmente registro dei video in solo e in collaborazione con altri membri della comunità, ed è una situazione molto interessante, anche perché in questo momento è l’unico modo per conoscere nuovi musicisti e magari far nascere dei rapporti che potrebbero consolidarsi in futuro.

In generale, considerando il tutto, non la vivo malissimo, perché ho un lavoro, che non è la musica, che mi dà da mangiare (sono insegnante di italiano, storia e geografia nella scuola media) e questo aiuta molto a vivere senza troppe preoccupazioni, anche se, ovviamente, non vedo l’ora che tutta questa storia finisca.

Un musicista il cui lavoro non è noto ai più e che invece dovrebbe esserlo?

Non so se non sia noto ai più, ma direi Erik Hove, sassofonista canadese che con il suo Chamber Ensemble ha pubblicato due dischi veramente notevoli, mescolando la composizione contemporanea e l’improvvisazione in maniera molto efficace, a mio avviso.