MICK HARRIS

Mick Harris, foto di Helen Harris

Contattai Mick su suggerimento di Laswell. Realizzammo due album insieme e svariati live. Mick creò Possible Records e mi chiese un progetto per l’etichetta. Nacque Simm, grazie a lui. Mi invitò a suonare come chitarrista per un tour in Scorn, uno dei progetti che ho amato e amo di più. Diventammo amici. Abbiamo passato un bel po’ di tempo insieme a fare e ad ascoltare musica (ho scoperto un sacco di dischi meravigliosi insieme a lui); a parlare di equipment, delays, filtri, campionatori.
Ha cambiato la musica non una ma quattro volte: con Napalm Death, con Scorn prima fase, con Scorn seconda fase (anticipando di anni il dubstep e molto altro) e con Lull, anche qui precedendo tutto il filone drone di almeno un decennio.
Un giorno ci siamo persi. Sono anni che non ci sentiamo. Ho un grande rispetto per lui, nonostante ci siamo più volte azzuffati; ma si sa, lui ha il suo carattere, io il mio. Siamo entrambi noti per essere “diplomatici”…
Ciò che conta oggi è che Mick sia tornato, con la coerenza e la trasparenza che lo contraddistinguono da sempre. E lo ha fatto con un pugno in faccia. Fret è subito riconoscibile come un “Harris Classic”. Bentornato Mick. (Eraldo Bernocchi)

Mick Harris è nato a Birmingham nel 1967. Iperattivo, curioso, a suo modo geniale e imprevedibile, forse impossibile da gestire, ha mostrato nuove strade a un sacco di persone negli anni Novanta contando sulle sue sole forze, senza alcun tipo di “educazione”, musicale e non. Torna oggi con Fret, un vecchio nome utilizzato solo una volta in passato, ma dal sound molto attuale (non a caso la prima apparizione fu sulla oggi acclamata Downwards): bisogna immaginare uno Scorn più percussivo e upbeat, ancora spoglio, sempre cupo e ovviamente devastante. Nell’entusiasmo di risentirlo dopo tanti anni, mi vien da dire che per lui è quasi una seconda/terza giovinezza.

Ci sono alcune cose che bisogna sapere su Harris, non necessariamente tutte (non le conosco e non le menzionerò tutte, tipo, per fare uno dei mille esempi possibili, la militanza negli Extreme Noise Terror). Qualcuna però serve davvero, anche perché solo così si può capire come mai suona in un certo modo ed è Storia.

Mick Harris, era Napalm Death

Chiunque abbia ascoltato metal a fine Ottanta e nei Novanta sa bene chi è Micky e perché è importante: basta aver comprato qualche rivista rock dell’epoca o aver semplicemente scambiato idee con qualche amico, quando per inciso da qui individuare i protagonisti e ricostruire le discografie era una fatica immane. Il libro “Choosing Death” (2004) del giornalista Albert Mudrian, nel quale Harris compare anche come fonte orale, semplifica molto la faccenda per i neofiti. Dal 1986 al 1991 quest’uomo è il batterista dei Napalm Death e suona nei dischi Scum, From Enslavement To Obliteration, Mentally Murdered (un ep) e Harmony Corruption. Lo diventa dopo esser stato ai loro primi concerti da band sconosciutissima e dopo che Bullen e Broadrick vedono che è esplosivo e velocissimo dietro al drumkit. Nota bene: è un punk prima che un metallaro (nel libro la teoria è che questi gruppi siano fatti da punk che hanno scoperto i Celtic Frost), è una forza della natura, non è tecnico, è un autodidatta purissimo e bruciante. Il primo album del gruppo, il fondamentale Scum, è la somma di due registrazioni fatte da due band completamente diverse (che al loro interno contengono altre ottocentomila band future, tra l’altro… Carcass, Godflesh…), con in comune solo il nostro amico. Quindi stiamo anche parlando di uno che – mentre inventava una robetta di poco peso estetico come il blast beat – per un periodo porta avanti in prima persona quel nome che per molti è il Big Bang del grindcore e del death metal. “Choosing Death” prosegue con un sacco di episodi istruttivi: si vede crescere la Earache proprio grazie ai Napalm Death, che finiscono anche da John Peel, compare Zorn che cerca questi ultimi durante un loro tour in Giappone e quindi si assiste ai “preliminari” dei Painkiller, c’è anche Micky che si fa una “vacanza” negli States e procura ai Morbid Angel un contratto, sempre ovviamente con l’etichetta di Digby Pearson. Soprattutto ci sono due momenti molto interessanti: la decisione di essere più death e meno grind, dunque la scelta di registrare Harmony Corruption presso gli americani Morrisound Studios, durante la quale emergono i suoi limiti rispetto ai più precisi concorrenti americani (collegate questo ai suoi problemi di autostima di cui parla più avanti nell’intervista che gli ho fatto) e il suo tentativo successivo di evolvere la sua band verso qualcosa che alla fin fine avrebbe finito per assomigliare ai primi Scorn. Ciò non succede, perché il bassista Shane Embury, l’attuale leader dei Napalm Death, lo allontana da un gruppo a cui forse aveva già dato tutto quello che poteva dare, perché dopo l’intuizione iniziale (velocità infinita), un’evoluzione tecnica non era materialmente possibile e forse non era nemmeno più cercata.

A inizio anni Novanta partono Painkiller e Scorn. I primi sono diventati una pietra di paragone insostituibile ogni qual volta un gruppo metal estremo esce dai binari di genere e ovviamente quando ha un sassofonista tra le sue fila. Grind, free jazz, dub: in quel periodo storico un’apertura mentale simile era molto rara. Oggi, nel 2017, grazie all’accesso più semplice a più generi, può diventare utile vedere i Painkiller da una prospettiva free jazz (non la mia, e non lo sarà mai, ma ho il sospetto sia quella giusta), come succede in quest’intervista utilissima, che tra l’altro dà conferma del corteggiamento giapponese di Zorn. Anzitutto, si capisce come certo jazz già da tempo si spingesse su territori estremi (pur ovviamente non potendo contare su musicisti di estrazione punk o metal) e basta sentire i progetti di Peter Brötzmann per rendersi conto che nel fiume della musica determinate idee nuotassero già perfettamente formate. Per questo Micky appare più che altro come un fenomenale e utilissimo collaboratore di Mr. Tzadik e Laswell (i quali faranno anche a meno di lui per anni), un ragazzo che ha la possibilità di imparare un sacco da due vampiri di quindici anni più vecchi che in cambio vogliono un rifornimento continuo di sangue percussivo puro, privo di qualunque sostanza inquinante accademica. La storia però insegna che questi tre e la Earache sbloccano qualcosa nella testa di tanti altri metallari dell’epoca: se Harris non ci avesse provato, oggi il panorama estremo sarebbe forse diverso.

With Mick, it’s Mick—nothing between you and what he’s telling you. It’s just raw; that’s what it is. And he’s living it; he’s going for it, and he’s ready to kill himself doing it. And this is a guy who didn’t get the chance to practice a lot, so when you play like that, you have to really build up your hands and everything. You can kill yourself playing. And I remember gigs where, if he hadn’t been able to go practice his drums, there would be blood everywhere. It just cuts through your hands if you haven’t built up the callouses. (Bill Laswell)

Per quanto riguarda Scorn, lo storico e importantissimo progetto elettronico del protagonista di quest’articolo, la miglior lettura possibile è quella dell’approfondimento di Stefano Isidoro Bianchi su Blow Up 118 (marzo 2008). Al solito Bianchi ha capito tutto e ti fa capire tutto, al netto dell’odio incontenibile per il metal (scrive che Harris abbandona il genere, ma in realtà abbiamo intuito che a lui, uno comunque piuttosto volubile, non avrebbe fatto schifo trasformare i Napalm Death nei Death, solo che non è un cazzo facile diventare un gruppo death metal americano…). Lo Scorn migliore sarebbe – anche a mio avviso – quello in cui Mick agisce da solo e prova a fermare (che è come accelerarlo al massimo) il tempo e a ucciderlo, mettendo a frutto le lezioni dub di Wobble e Stewart (e Laswell?) e quelle dell’industrial music. Quindi l’accessibilità di Evanescence (con Bullen e Plotkin!) e il tiro godfleshiano di Vae Solis (con Bullen e Broadrick, a riformare la prima versione dei Napalm Death…) si possono anche trascurare, favorendo roba spettrale come Gyral e Logghi Barogghi. Ok, però Vae Solis è godibilissimo. Insomma, come già emerso chiaramente, Mick funziona quando segue la regola del less is more. Da qui la sua inclusione nella corrente isolazionista (impossibile non nominare il progetto Lull, di fatto la declinazione senza beat di Scorn, con cui ha fatto un album anche per l’italiana Glacial Movements), l’influenza ipotizzabile sul trip hop e quindi sul dubstep, per non parlare del materiale industrial dub dell’epoca (qui parlerei di impollinazione reciproca).

Nel suo secondo periodo d’oro, cioè durante la seconda metà degli anni Novanta, Harris collabora separatamente sia con Teho Teardo (Matera del 1996), sia con Eraldo Bernocchi. Entrambi i musicisti italiani, provenienti – se vogliamo semplificare – dall’arcipelago industrial, parlano ancora con orgoglio di queste esperienze, come si vede anche dai loro due interventi qui ospitati: i dischi appartengono alla loro epoca (tradotto: non sono indietro come tanta roba italiana), cercano al contempo di essere degli ibridi originali e contengono elementi trip hop, drum’n’bass, ambient e industrial, con picchi davvero notevoli. La stampa alternativa di casa nostra all’epoca è distratta da Manuel Agnelli – tipo come adesso – per dare la giusta rilevanza a questo materiale.

Trascorsi delle belle settimane in studio con Mick, imparando molte cose da lui, soprattutto sui bassi, il modo di mixare. Dormii a casa sua con la sua famiglia. Furono giorni intensi ed importanti, giorni di apprendimento. In Italia non c’era nessuno che lavorava così con le ritmiche, nessuno che avesse quelle conoscenze.
In Italia mi sentivo sempre un idiota quando parlavo di cosa avrei voluto fare con la musica, molti musicisti mi guardavano come se parlassi un’altra lingua.
Con Mick mi sentivo a mio agio, anche se lui aveva un bel caratterino.
Avrei voluto dare un seguito a Matera, il progetto che avevamo ideato assieme, sentivo necessario sviluppare una direzione che comprendesse maggiormente l’uso della voce e l’armonia con le intuizioni ritmiche che lui aveva, ma non fu possibile. Credo Mick preferisse evitare di curarsi dell’armonia, così ognuno proseguì serenamente nel proprio percorso. Alcuni mesi dopo io ero già a New York per registrare l’album di Here.
Spero di rivederlo prima o poi, l’ho sempre stimato molto e nel corso degli anni gli ho scritto più volte, ma è da tanto che non lo sento. Anzi se hai un contatto recente passamelo.
Non dimenticherò mai il momento in cui gli confessai di essere un grande fan del telefilm George & Mildred e che avrei tanto desiderato avere un vhs con gli episodi. Sorridendo mi accompagnò in un negozio di Birmingham e acquistai la videocassetta che conservo tuttora. (Teho Teardo)

 

Intervista a Mick Harris

Mick Harris, foto di Helen Harris

Dato che il materiale contenuto in Fret è molto buono, non potevamo non cogliere l’occasione di fare quattro chiacchiere con Mick.

Anzitutto, come stai?

Mick Harris: Sto bene, grazie. Oggi day off, quindi ancora meglio e posso infilarci un po’ di musica.

È bello vederti suonare di nuovo, stavolta con un nome diverso (lo hai già utilizzato una volta, molti anni fa)…

Apprezzo il tuo supporto ed è ancora sorprendente per me stesso vedermi accendere le macchine realizzare un po’ di musica. Il nome Fret è tornato quando dopo Natale 2016 ho continuativamente jammato per giorni e ho sentito davvero di avere ottenuto qualcosa che mi piaceva. I tempi e la spinta percussiva avevano un che di Fret, per questo ho deciso che era il momento giusto. Volevo portare ancora suoni e idee al tavolo di questo progetto. Fret era stato un vinile estemporaneo con tre pezzi che era uscito per una sottodivisione della Downwards di Karl O’Connor. Avevo fatto anche un mini lp di sette tracce che sarebbe dovuto uscire per Resinance, ma non si è mai materializzato… nel 2012 Downards ha pubblicato una compilation speciale di materiale inedito a firma di artisti ad essa in qualche modo legati (Halha: 20 Years Of Downwards) ed è stata usata una di quelle.

Dal punto di vista ritmico, Fret sembra diverso da Scorn.

Molto più percussivo e – sì – è leggermente più up-tempo. Sempre molto spazio per il dubbing in real time, che è qualcosa che mi piace fare ancora moltissimo quando sono in studio: le mani sul mixer mentre la traccia sta andando. Mi piace sempre lavorare con suoni trovati e poi processati, il mio registratore portatile digitale esce ancora con me quando meno te l’aspetti.

Dato che ti considero molto eclettico e aperto, questa differenza non mi sorprende. I suoni di Fret mi paiono più aggressivi. Riflettono ciò che senti al momento o sono la conseguenza del tuo desiderio di provare soluzioni differenti?

Come dicevo prima, ho fatto una lunga jam dopo Natale e dopo aver discusso con mia moglie sul fare ancora musica (come sai non registravo nulla da Yozza del 2011, il mio ultimo live era del novembre 2011, non pensavo davvero di riuscire a realizzare un’altra sola traccia o un disco completo) e lei è stata la mia roccia e ha ripristinato la mia sicurezza in me stesso, dandomi la spinta finale. Quella lunga sessione ha prodotto qualcosa con cui mi sentivo a mio agio, aveva una spinta tribale e meccanica, e lasciava la possibilità di giocare coi suoni trovati, gli effetti e il live dubbing. Io sono molto passionale, iperattivo e soffro pesantemente d’ansia e questo è il risultato, penso. Non ha nulla di speciale ma ha una direzione e sentimento. Mi piace creare di nuovo adesso, e questo è un plus per me.

So che sei molto minimale quando si tratta di equipaggiamento (hai iniziato come punk e sei sempre stato austero), ma ovviamente in questo caso devo chiederti se hai cambiato qualcosa nel tuo assetto.

Sì, sono sempre stato molto minimale, lo hai detto. Sono autodidatta, per imparare guardavo i Napalm Death (prima di entrarci era sempre ai loro concerti, ndr) e poi nel 1989 ho avuto il mio primo campionatore quattro tracce e un rack di effetti, questo per fare delle intro basilari sempre per i live dei Napalm Death. Dopo che ho lasciato la band, prendevo pezzi di strumentazione di qua e di là, le solite cose, mixer più grande, più effetti, campionatore migliore… e mi sono messo a imparare a usarli e a realizzare tracce infinite nel corso degli anni. Avevo tutta una serie di posti dove registrare, che si sono mangiati tanti soldi, così pezzo per pezzo ho venduto equipaggiamento per pagare i conti, ed ecco che nel 2007 il mio set up era molto ridotto, con un piccolo mixer (ma funzionale), piccoli monitor (ma sempre funzionali), un piccolo quantitativo di rack di effetti e un po’ di stomp boxes/effect boxes, di quelle che piacciono a me perché puoi usare le mani. Sono sempre un “uomo da campionamento” come ti dicevo, e i suoni li tratto con Reactor, di cui sono grande fan. Uso – sempre di Native Instruments – Maschine, dato che con Cubase ho smesso nel 2011: è perfetto per me a livello di suono, idee, workflow… lo amo e così vorrei avesse otto uscite, questo è la mia sola lamentela (scusa Rembert). Uso ancora la mia vecchia soundcard MOTU 828 MK1 con 8 uscite, funziona bene per me sin dal 2002, anche se sono preoccupato che mi molli presto e sto cercando una seconda, non mi convince altro – solo apparentemente – migliore, sono felice così, non devo mai riparare. Ho avuto un po’ di sintetizzatori nel corso degli anni e ho tirato fuori quantità infernali di campionamenti da loro, ma non è rimasto nulla. La nuova stanza per la musica a casa è perfetta, qualche problema di suono ma io non sono preoccupato. Chi ha detto che registrando non puoi arrivare alle linee rosse? Il banco di missaggio è uno strumento per me. Lavoraci.

Quindi, proseguendo la conversazione: hai sempre detto che preferisci che la musica sia spoglia, basilare. Potremmo dirlo anche a proposito di Fret…

Direi che è un po’ come il mio modo di suonare la batteria: passione, spinta, ma molto basico, solo energia, questo mi piace nella musica, non mi interessa la disciplina.

E visto che stiamo parlando di musica spoglia e tu hai menzionato il live dubbing, mi è tornata in testa un’intervista recente che ho fatto a Justin Broadrick. Ha parlato dell’influsso giamaicano su Birmingham. A sentire lui pare che tu possa ascoltare dub ovunque nella vostra città. Che mi puoi dire di questo?

La musica dub ha e ha avuto enorme impatto e influenza sul mio modo di lavorare e ascoltare. Mi riporti indietro al 1979, quando passavo i weekend col mio migliore amico (e cugino) ascoltando punk e giocando a biliardo nella sua stanza: lezione numero uno. La lezione numero due c’è stata quando mi ha detto che sarebbe andato all’università presto e che non sarebbe stato in giro per le vacanze, dandomi poi un consiglio, quello che sarebbe diventato il miglior consiglio che io abbia mai ricevuto, cioè ascoltare John Peel alla BBC, sulla quale aveva uno show che andava in onda dalle dieci a mezzanotte da lunedì a giovedì… avrei sentito buona musica lì. Questa è stata la mia formazione, ascoltare gli show di John e nel weekend andare in città a comprare qualcosa che mi ero segnato. Insomma, una sera Peel suona questo b-side di un sette pollici reggae importato dalla Giamaica. C’era questo sound del tutto spoglio, eco e riverbero, e io ci sono andato in fissa… il resto è storia, del resto chiunque può fare una ricerca e vedere come un sacco di punk amassero tutti i suoni giamaicani…

Hai presentato Fret (a/v show, world premiere) al Berlin Atonal, uno dei festival di musica elettronica più importanti in Europa. Che ci puoi dire di quest’esperienza?

È stata una gran giornata/nottata, anche perché era da tanto tempo che non stavo sul palco. Ho lavorato su uno sketch live che potesse evolversi in seguito, così come facevo per i set di Scorn. Ho jammato su questo sketch e sentivo che poteva funzionare in una situazione live con loop basilari tagliati e spediti ad out individuali e a canali individuali sul mixer, alimentando effetti e stomp box. Ableton Live e la fedele MOTU sono la perfezione per questo. Il soundcheck è stato piuttosto rapido, perché i tempi erano stretti e perché è più il tempo che stai a montare l’equipaggiamento che a provare una traccia… nonostante questo ho comunque potuto suonare e divertirmi. Ho fatto un errore e ho perfino riso di me stesso per questo. Non vedo l’ora di suonare ancora live e non manca tanto. Sono stato molto fortunato a trovare recentemente una booking agency con cui mi trovo bene ed è una cosa che volevo da tanto tempo, quindi dita incrociate, dato che potrei far più spesso rumore in giro. Grande esperienza, da ricordare, anche solo per quanto è figa la venue. Ah, un mio amico visual artist sarà con me in qualche show nel 2018.

Di solito non sono un ruffiano, ma… secondo me hai sul serio anticipato molte cose poi accadute nella musica elettronica negli anni successivi (dubstep, alcune cose ambient…). Gli organizzatori del festival o alcuni dei musicisti lì presenti ti considerano un’influenza?

Non ne ho idea. È successo tutto così in fretta quel giorno che non ho avuto tempo di sedermi e riflettere. Non avevo dormito per tre notti (ho ancora i miei problemi con il sonno). Ho incontrato Thomas di Karlrecords per al prima volta e questo era importante, il mio buon amico di Native Instruments (no, non sono sponsorizzato) e un altro mio buon amico, Derek di Combat Records (lui sarà il visual artist live) e poche altre facce. Però mi sono divertito. Non so rispondere alla tua domanda, ripeto, posso dirti che c’erano grandi artisti (ho guardato i Demdike Stare e sono molto bravi), mi spiace. Siamo tutti influenzati…

Over Depth di Fret esce per la Karlrecords, appunto. Nel 2016 ha pubblicato Execution Ground (Painkiller) su vinile per la prima volta. Il fatto che tu sia ancora su Karlrecords mi fa pensare che tu sia rimasto soddisfatto di quel lavoro.

Totalmente. Thomas si è presentato come onesto e appassionato, e questo è uguale a risultati. Gli ho detto che volevo solo onestà e lui mi ha risposto che l’avrei avuta.

Insomma, coi Painkiller il dub torna nella nostra conversazione, ma ovviamente anche quell’incontro tra free jazz e drumming estremo che aprì molte menti all’epoca. Hai ricordi di quell’album da condividere con noi?

Wow, giorni grandiosi senza preoccupazioni. Zorn e Laswell mi hanno aperto la strada verso delle grandi musiche ed è sempre stato piacevole uscire e suonare con loro. Devi considerare che ho sempre avuto problemi quanto a sicurezza in me stesso in certi periodi della mia vita, ma stare in studio con John e Bill è sempre stato bello e divertente, potevo sentirmi libero. Sapevano qual era il mio stile ed entrambi amavano il fatto che restavo attaccato al drumkit, Laswell se ne uscì col soprannome di “mangusta”. Entrambi conoscevano anche i miei limiti, sapevano che non leggevo la musica, ma che avevo passione e forza.
Grande esperienza, divertimento e molto da imparare, tanto che mi ha aperto la visuale su certi modi di produrre la musica, mi bastava guardare Bill e il suo tecnico del suono dei Greenpoint Studios di Brooklyn, un posto che amo e che mi ha dato il miglior suono di batteria che io abbia mai avuto: “aperto”, “live” e non compresso… Era grandioso anche suonare concerti coi Painkiller, ma mi sono dovuto chiamare fuori perché avevo davvero problemi di testa, di cui John era al corrente all’epoca. Bei ricordi, sono stato davvero fortunato a lavorare con quei ragazzi.

Sì, hai suonato con eccellenti musicisti, come appunto Zorn e Laswell. E anche con gli italiani Eraldo Bernocchi e l’ora apprezzato compositore di colonne sonore Teardo…

Tutta gente per bene, che lavora duro e ha passione. Non vedo più nessuno di loro, anche da lungo tempo.
John e io ogni tanto ci mandiamo qualche mail e lui ancora gentilmente mi manda le sue musiche e quelle della sua etichetta. Grande amico, molto comprensivo, non mi ha mai giudicato. Ogni volta che posso saluto anche Bill.

Hai iniziato nuove collaborazioni di recente? Sei interessato a lavorare con qualche artista in particolare ora? Qualcuno che non hai mai incontrato, per un motivo o per l’altro (tempo, soldi…)…

Voglio lavorare da solo adesso, perché sento di essere in un buono spazio e ho appena iniziato “a cucinare” con le dinamiche di Fret e desidero cogliere l’attimo e fare un po’ di ep il prossimo anno, viaggiare e suonare dal vivo. Vorrei anche realizzare un nuovo Lull, un nuovo Monrella e anche un nuovo Hed Nod. Va già bene così, sentirmi davvero positivo e andare avanti con la mia vita, per questo non voglio pensare a future collaborazioni, perché creano dinamiche differenti. Al momento mantengo un ruolo di assistente tecnico musicale tre volte alla settimane presso il college cittadino. Così riesco a entrare in sala prove e lavorare, e devo riuscire a trarne vantaggio ora.

Hai iniziato in una scena musicale molto conscia politicamente e socialmente. Forse non risponderai a questa domanda, ma mi piacerebbe davvero conoscere la tua opinione sulla Brexit.

Madness… (l’ho lasciata volutamente non tradotta, mi pare che meriti, ndr…).

Grazie per aver accettato l’intervista, spero di vederti presto in Italia…

Grazie per il tuo supporto e spero a un certo punto di passare anche in Italia.