MESHUGGAH, Immutable

Trentacinque anni di attività. Una band capace di lasciare un’impronta indelebile nel metal estremo. E c’è anche la paternità di un intero sottogenere, ma di questo non vanno molto fieri (per ragioni di privacy eviterò di citare il nome del rampollo a stento riconosciuto!). Loro sono i Meshuggah, i pazzi del metal, quelli che osano tempi dispari sovrapposti e accordature impossibili.

Anche per loro è però giunto il momento di porsi alcune domande: dopo otto album e altrettante pubblicazioni minori, dopo aver sperimentato ogni combinazione ritmica e tutte le frequenze dello spettro armonico… quale direzione prendere? Esistono ancora confini da violare? Vale la pena affrontare una radicale trasformazione oppure rimanere fedeli a sé stessi? Il bivio di fronte a cui innumerevoli artisti si sono trovati e spesso arenati. I Meshuggah questa volta hanno scelto di non varcare altre Colonne d’Ercole, e, in questo senso, il titolo della loro nona fatica appare come una dichiarazione di intenti: Immutable.

Lo dico subito: per alcuni di voi Immutable potrebbe essere una grande delusione. Da molti punti di vista è un disco “ordinario”, almeno per gli standard a cui gli svedesi ci hanno abituati. La costante aggressione sonora che aveva caratterizzato i precedenti The Violent Sleep Of Reason e Koloss viene messa in secondo piano a favore di una scaletta meno asfissiante, punteggiata da diffuse aperture melodiche e momenti di rarefazione, tra i quali emergono la strumentale “Paste Tense” e l’intro di “They Move Below” (quest’ultima ispirata ad “Orion” dei Metallica).

In Immutable atmosfere alienanti e ritmiche ossessive rubano la scena ai tecnicismi del passato, al punto che la progressione tutto sommato lineare dell’introduttiva “The Broken Cog”, per altro condita dai mormorii sinistri di Jens Kidman, potrebbe lasciare spiazzati i fanatici di “Stengah” e “Bleed”. Anche gli episodi più brutali, come “The Abysmal Eye”, “I Am The Thirst” e “Armies Of The Preposterous” raramente si impuntano su intrecci cervellotici ed estremismo a tutti i costi, prediligendo invece soluzioni immediate, quasi minimali.

Non per questo la complessità generale dei pezzi viene meno: Tomas Haake alla batteria continua a distribuire accenti sulla base di geometrie non del tutto euclidee, ma gli arrangiamenti risultano più fluidi rispetto al passato, tanto che le chitarre della coppia Thordendal-Hagström, sgravate dai vincoli imposti da strutture impenetrabili, godono di una maggiore libertà d’azione. Sono proprio le armonie ipnotiche disegnate da Fredrik, capaci di stamparsi in testa dopo pochi ascolti, la carta vincente in “Light The Shortening Fuse”, “The Faultless” e la titanica “Ligature Marks”, senza dubbio i punti più alti del disco.

La pretesa di staticità dichiarata nel titolo, dunque, non trova del tutto riscontro nell’ascolto. Pur senza stravolgere le fondamenta del progetto, i Meshuggah hanno optato per un approccio inedito, e questo è evidente anche in una produzione ben lontana dalla prepotenza dei lavori recenti, orientata invece a marcare le dinamiche chirurgiche dei tredici brani

Tutti questi aspetti porteranno il pubblico a dividersi: qualcuno accuserà Immutable di scarsa originalità e poca vena creativa, mentre molti lo acclameranno come l’ennesimo capolavoro degli svedesi. A mio parere è un’opera imperfetta, e paradossalmente l’ho apprezzata proprio per questo: mostra tracce di “umanità” in una band che fino ad oggi ha sondato l’insondabile, ma che deve inevitabilmente fare i conti col tempo che passa e trovare nuovi stimoli. È questo l’eterna ed immutabile sfida di ogni musicista, anche di quelli pazzi.

Quando Tomas Haake ti chiama per dirti “adesso facciamo un disco facile”

Tracklist

01. Broken Cog
02. The Abysmal Eye
03. Light The Shortening Fuse
04. Phantoms
05. Ligature Marks
06. God He Sees In Mirrors
07. They Move Below
08. Kaleidoscope
09. Black Cathedral
10. I Am That Thirst
11. The Faultless
12. Armies Of The Preposterous
13. Past Tense