MARCO COLONNA, Scaleno

Provare a non chiudere una frase,
lasciare uno spiraglio per chi vuole
entrare: che lo faccia senza chiave,
senza chiedere permesso, che metta
pure una parola dove crede. Stare
meglio quando s’intravede un nesso.

Andrea Bajani

Marco Colonna di spiragli ne lascia tanti, offre molteplici punti prospettici, non chiude le frasi, ovverosia crea musica che pone domande più che dare risposte, chiede permesso alla Storia e mette la sua parola, una parola fertile e luminosa, in un posto del tutto personale, animato da una profonda fede nella verità intrinseca alla musica. E si sta meglio ascoltando i suoi dischi, proprio perché si intravede un nesso, un sentiero che collega tutti i suoi, i nostri percorsi: il Novecento ancora foriero di enigmi di Stravinsky, le astrazioni nitide di Steve Lacy (qui interpretato in “Blues For Aida”), l’urgenza  del free più politico, un afflato umano troppo umano che sa di soul nel senso profondo del termine, Eric Dolphy, Charles Mingus (ottimo davvero Miranda al contrabbasso), la Esp-Disk, le vette dell’improvvisazione e la terra scura del jazz inteso come musica degli emarginati, degli sconfitti. Sconfitti che nelle composizioni del musicista romano (a completare il trio c’è Fabrizio Spera di Ossatura  alla batteria) rialzano fieri il capo e osservano galassie (“B.R.”, la terza, magnetica traccia, che disegna orbite ipotetiche attorno a un centro di gravità non permanente), poi si fermano a tirare il fiato pensosi (Riu Martini, senza la batteria, aerea e obliqua). La title-track è un perfetto numero di classica great black music, notturna e imprendibile, “Sabbie” è un’oasi che mantiene i miraggi che promette, “Legless” un altro pezzo perfettamente in equilibrio (a testa in giù, visto il titolo) tra archivi del passato e  nuove grafie, un esatto esempio di come Colonna sappia muoversi con piglio sicuro e personalissimo nello sterminato oceano della musica creativa afroamericana senza mai risultare didascalico. Perché la sua è una voce forte e chiara, (“Polvere”, che si regge su una scheletrica figura di basso e ombre percussive su cui soffia, come da titolo, un clarinetto che cerca forse di imitare il vento e un certo languore desertico), le composizioni non hanno un filo di grasso, sono asciutte, scattanti, suonano vere, vive, necessarie, anche grazie al prezioso lavoro della sezione ritmica, puntuale ed espressiva, abile nel non perdersi mai, ma sempre capace di alludere, di sottolineare, di suggerire fughe, ritorni, partenze.

Un altro centro pieno per un musicista prezioso, una delle teste in fiamme del jazz in Italia oggi, capace di parlare tante lingue tutte legate da una forte coerenza interna, mai consolatorio o futile, sempre concentrato e teso come un acrobata ma al tempo stesso naturale e fluido. Uno che la musica , non c’è nulla da fare, ce l’ha dentro e addosso.