Luca Giovanardi: delle streghe e delle sfere

Prendi uno dei saggi più affascinanti della letteratura italiana, “Storia Notturna” di Carlo Ginzburg, tanto accurato quanto misterioso riflettore-generatore di storie legate allo studio delle origini popolari della stregoneria. Prendi uno dei musicisti della nostra scena alternativa che più amano “viaggiare”, all’interno e all’esterno di confini geografici e di genere, nell’accezione psichedelica del termine ma anche in quella multidisciplinare.

Di recente disponibile su Bandcamp e in arrivo in vinile limitato a trecento copie su Backwards Records dal prossimo 25 novembre, il nuovo album da solista di Luca Giovanardi si ispira al leggendario volume del celebre storico piemontese, edito in origine nel 1989 e (ri)preso a mo’ di big bang orientativo, divenendone un’ideale, indipendente filiazione in note. Ecco così che “Storia Notturna”, nelle mani di Giovanardi, si trasforma – come dice lui stesso – in un racconto emiliano di psicomagia in musica.

Di traccia in traccia, di capitolo in capitolo, capiterà di imbattersi nei dissonanti accordi luciferini dell’introduttiva “Contractus Magistri”, nelle esplosioni elettriche dai mortai di polvere della ritualistica “Mascherati Da Animali” e nelle ritmiche inevitabilmente traballanti di “Su Un Solo Sandalo”, per poi proseguire con i tessuti elettronici in sovrapposizione e i field recording di “Ossa E Pelli”, l’ebbra chitarra folk di “Saturnalia”, le sperimentazioni polietniche-eretiche di “Ben Stage, Madona Horiente” e, in conclusione, la dilatazione horror space della siderale “Sibillia”.

Non è di certo la prima volta che, anche da solista, al di fuori dei Julie’s Haircut, ti cimenti con colonne sonore, sonorizzazioni o musiche correlate ad altrui lavori, ma questa è la prima volta che lo fai in associazione a un’opera letteraria, giusto?

Luca Giovanardi: Sì, e devo dire che potrebbe anche non essere l’ultima. L’idea di strutturare un lavoro musicale partendo da un libro magari non è inedita, ma non è nemmeno la più battuta, e i due linguaggi sono così dislocati l’uno rispetto all’altro che la libertà espressiva ne giova parecchio. Diciamo che ho un’altra idea simile in testa, ma non so dire ora se vi darò seguito.

Come è stato il tuo primo “incontro” in assoluto con Ginzburg? E cosa invece ha innescato in te l’idea di relazionarti proprio adesso, anzi a partire da un paio di anni fa, con “Storia Notturna”?

Il mio primo incontro con Ginzburg – parliamo di incontro letterario, da lettore, perché di persona ho potuto conoscerlo solo pochi mesi fa a seguito proprio di questo lavoro – risale ai primi anni Novanta. Io studiavo Filosofia a Bologna e per un corso di Storia Sociale mi ritrovai in programma “I Benandanti”, che è un suo libro del 1966 ormai diventato un classico a livello mondiale. Ne fui folgorato, ma in realtà soltanto tantissimi anni dopo, appunto intorno al 2020, mi procurai una prima edizione di “Storia Notturna”, che è del 1989 ed è una sorta di seguito ampliato de “I Benandanti”. Il mio entusiasmo ne fu rinnovato, anche perché venivo, nel frattempo, da tanti altri libri letti sull’argomento della stregoneria, dei culti agrari, delle religioni pre-cristiane e della loro persecuzione. La lettura del libro, in maniera abbastanza improvvisa, funse da catalizzatore, mi fece scattare qualcosa in testa. Io produco, suono, registro un sacco di materiale nel mio studio, ogni giorno faccio musica, di tutti i generi, a volte anche solo come esercizio. Spesso mi ritrovo tra le mani cose che mi piacciono, ma che non pubblico perché non riesco a metterle assieme in un progetto organico. Ecco, la lettura del libro di Ginzburg ha avuto per me questa funzione: ha tracciato un percorso – che prima non vedevo – tra tante cose che avevo abbozzato. Quindi nel giro di poco tempo ho recuperato e ultimato alcune di queste cose e poi ne ho aggiunte di nuove fino a completare questo album.

Cosa ti ha rapito in maniera particolare del saggio, illuminante se si vuole andare oltre “l’emblema” a volte stereotipato della strega/stregoneria imposto dalle pratiche inquisitorie e cristallizzato nell’immaginario collettivo?

Be’, il libro lo trovo straordinario sotto tanti aspetti. Innanzitutto, ci tengo a sottolinearlo, dal punto di vista meramente letterario: Ginzburg scrive benissimo, è un vero piacere leggerlo. Poi è forse uno degli esempi più fulgidi e riusciti di questo approccio alla storia – in parte figlio di lavori antropologici come “Il Ramo d’Oro” di Frazer, ma molto più rigoroso – che parte da eventi “piccoli”, ben delimitati nello spazio e nel tempo, per poi allargarsi a una dimensione oserei dire “cosmica”. Ora, il professor Ginzburg mi tirerebbe sicuramente le orecchie, a sentire questo termine, ma è la mia impressione: quando nel segnare tracce tra eventi distanti arriviamo a toccare temi “magici” (e anche qui ci vuole rigore nell’intendere il termine), per me andiamo a toccare la parte umana più intima, immediata, in buona parte inconscia, e secondo me quella parte è comune a tutti gli umani, di qualsiasi luogo ed epoca.

Hai fatto tutto da solo, al di là del master di Andrea Rovacchi e di alcuni contributi ai microfoni (Matilde Bondioli alla voce soprano in “Su Un Solo Sandalo”, James Watts al canto di gola in “Mascherati Da Animali”). Un approccio, tra riletture e studio del testo più scrittura, che mi immagino peculiare, molto raccolto, tra ricerca e avanguardia d’autore. È così?

Immagino sia così, sì. Ho messo mano alle musiche appena conclusa la lettura del libro, e l’ho tenuto accanto, consultato, riletto durante tutta la lavorazione.

Alcune tracce, spesso molto diverse fra loro, portano il titolo di alcuni specifici capitoli. Come hai proceduto nell’assorbimento-smaltimento del tomo e relativa “messa in musica”? Hai seguito più il mood-“topic” generale o ti sei soffermato su particolari passaggi che hanno evocato determinate composizioni?

Ci sono in realtà alcuni rimandi musicali molto molto specifici ai temi del libro, e i titoli non sono casuali. Ora non mi piace l’idea di “spiegare” la musica, anche a rischio che questa profondità di strati non venga percepita da nessuno. Posso farti un esempio, tanto per farti capire l’approccio. “Su Un Solo Sandalo” è un brano ispirato a un tema ricorrente in molte epoche e culture differenti: l’eroe che calza un solo sandalo, l’eroe vulnerabile al tallone, la zoppia del diavolo. Ecco, musicalmente ho espresso questo elemento optando per un tempo dispari, un 5/4, che restituisce questa idea di incedere incerto, di un passo in più ogni quattro.

Prima mi anticipavi del tuo incontro di persona con Ginzburg. Chiederei gli aneddoti del caso.

Be’, non posso certo addentrarmi troppo nello specifico, in fondo il professore merita la propria privacy. Posso solo dire che vive esattamente nella casa che ti immagineresti: uno splendido appartamento in un antico palazzo nel centro storico di Bologna, la più bella vista delle due torri che io abbia mai potuto apprezzare. La casa è un tempio di libri, ovviamente: enormi tavoli di legno ricoperti di volumi, ogni parete disponibile ricoperta di altri tomi, moderni e antichissimi. Lui è una persona squisita, gentile e accogliente. Insisteva che lo chiamassi Carlo, ma io già faticavo a reggere l’imbarazzo di essere lì a fargli ascoltare un disco realizzato a partire da uno dei suoi libri più importanti, figurarsi. Lui sostiene di sapere poco o nulla di musica, ma dai cd  che ho visto accanto allo stereo è abbastanza evidente che non è proprio così. Abbiamo ascoltato tutto l’album insieme, lui si è mostrato curiosissimo, soprattutto sui timbri dei suoni che sentiva, ha voluto sapere nel dettaglio cosa avevo utilizzato. Mi è parso molto affascinato dal vocoder.

Pur rifacendosi a fatti molto antichi, in aggiunta a strumenti a corda come il bouzouki e percussioni acustiche, hai introdotto sonorità digitali che rendono a tratti l’ascolto atemporale: come hai proceduto in tal senso? Penso a “Ossa E Pelli” o “Sibillia”. I benandanti, appartenenti a una specie di setta composta da praticanti di un culto agrario, sostenevano di combattere le anime dei morti che volevano guastare i raccolti. Ma questa connessione con la terra, oltre che evocare folk oscuro e dintorni, potrebbe benissimo deragliare anche in ottica sci-fi…

È giusto quello che dici quando parli di “atemporalità”: era esattamente il mio obiettivo. Come accennavo prima, c’è una certa universalità nei temi al centro del libro di Ginzburg, al di là della specificità degli argomenti della ricerca storica. Partiamo magari da un culto agrario friulano del Cinquecento, ma arriviamo a parlare di noi tutti. Il pensiero magico che ha dominato fino in epoca moderna è stato cacciato fuori dalla porta dall’Illuminismo e dal Razionalismo prima e dal Positivismo poi, ma la mia impressione è che rientri sempre dalla finestra, perché è ineliminabile dalla nostra natura. E anzi, questi aspetti più profondi e meno consci, meno razionali ma intuitivi, sono quelli che più ci accomunano. Il problema interviene nel momento in cui questo pensiero è stato del tutto svuotato di senso, derubricato e ridicolizzato dall’imporsi del metodo scientifico, perché allora può riemergere solo in due modi: cialtronescamente, da parte di imbonitori fasulli o maghi da televendita (“soffiatori”, li avrebbero chiamati gli alchimisti), oppure attraverso le religioni costituite, che però non se la passano più bene nemmeno loro come un tempo. L’unico ambito in cui in qualche modo si è tentato un recupero serio di questa sfera più emozionale è stato quello psicologico. Che è come dire, appunto, che lo si affronta come se fosse una malattia, quando invece è una parte costituente del nostro essere.

Il libro c’è, il disco adesso c’è. Da appassionato di cinema e dintorni, fantasticando, chi vedresti bene a fornire una controparte visiva del tutto?

Se intendi una controparte visiva del mio album, ti rispondo nessuno, onestamente. Adoro lavorare con le immagini, ho da poco ultimato la musica originale per il nuovo film di Marco Righi ed è forse la cosa che preferisco fare al momento. Ma Storia Notturna nasce come un dialogo tra letteratura (più o meno scientifica) e musica. Lo spazio delle immagini credo debba rimanere responsabilità dell’ascoltatore, in questo caso. Se invece intendi chi potrebbe essere, in generale, un regista capace di portare “Storia Notturna” sullo schermo, mi risulta comunque difficile risponderti. Banalmente ti direi Werner Herzog, perché è capace di mescolare documentario e finzione come nessuno. Però esiste un film – “Menocchio”, di Alberto Fasulo – tratto dal libro “Il formaggio e i vermi” di Ginzburg, che tratta sempre il tema della stregoneria in Friuli, e l’ho trovato molto riuscito.

Sempre quest’anno i Julie’s Haircut hanno intanto pubblicato un nuovo brano e relativo ep, “Plaster Mask” (maschere anche qui…). Piani futuri?

Eh, stiamo lavorando su nuove cose, in maniera molto discontinua. Abbiamo registrato tanta musica negli ultimi due anni, ma credo che dobbiamo ancora trovare l’idea che sblocchi una nuova direzione. Siamo in giro da tanto tempo e abbiamo fatto tanti dischi, per cui non ha senso fare un album tanto per farlo, vogliamo uscire con qualcosa che, almeno per noi, sappia di nuovo.