La patria di Manuel Zurria è il suono

Fondatore di Alter Ego, interprete per tantissimi autori, tra i quali segnaliamo qui Philip Corner, Fausto Romitelli, Salvatore Sciarrino ed Alvin Lucier, Manuel Zurria è un flautista che attraversa la musica contemporanea, dagli orizzonti e gli interessi aperti a 360° e che si è concentrato in modo particolare sul minimalismo. Abbiamo parlato del suo lussureggiante doppio Again & Again qui, e gli abbiamo rivolto qualche domanda, alla vigilia del concerto che terrà il 26 giugno a D’Istante, la due giorni di musiche del presente del Forlì Open Music Festival, organizzato da Area Sismica. Con questa intervista chiudiamo il trittico di interviste di artisti presenti alla rassegna (gli altri sono stati Hawkins e Ottaviucci), rivolgendo un pensiero affettuoso a Lucio Briganti, uno degli animatori del mitologico circolo romagnolo, scomparso qualche giorno fa tragicamente nel mare che tanto amava. 

Mi racconti il tuo primo ricordo legato alla musica? 

Manuel Zurria: Cominciamo bene! Se proprio devo fare uno sforzo, il mio ricordo più antico è legato ai canti dei venditori ambulanti a Catania, la città dove sono nato. Mi ricordo che ognuno di loro (come del resto succede ancora…) aveva un suo canto particolare e unico, che funzionava da campanello di avvertimento per i potenziali clienti. Il pescivendolo, l’arrotino. Mi dirai: ma questa non è musica! E su questo potrei non essere d’accordo. Se invece devo ripensare alla prima musica suonata su tastierine, chitarre o quant’altro, ricordo il grande rock degli anni Settanta, un periodo irripetibile, magico: Genesis, Yes, Gentle Giant…

Tutto si ripete, ma ogni volta è come se fosse la prima, l’idea del sacrificio condensa rito e santificazione di un gesto”. Oppure Steve Lacy: “Life’s always the same, always the same, always the same. Then it changes”. Come sei venuto a contatto con il minimalismo e cosa ti attrae di questo linguaggio? 

Il minimalismo può essere un modus vivendi, è vero. In un certo senso mi riconosco in questa forma mentis. Ho scoperto la musica minimalista attraverso i dischi, Philip Glass con Einstein On The Beach, Steve Reich con Tehillim, Terry Riley con In C. Il minimalismo ha avuto il merito di riportare la musica alla sua natura fisica. Anni di strutturalismo da Boulez a Stockhausen avevano inaridito l’approccio all’ascolto. Era un ascolto mentale, non più fisico. Sembra paradossale ma a un certo punto questa musica che era nata dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, si era come avvitata su sé stessa, diventando Accademia. Ecco, a questo punto della storia il minimalismo si è inserito con una prontezza travolgente, puntando su due elementi cardine della nostra natura: il ritmo e la ripetizione. Anche l’approccio era estremamente diverso. Non più una situazione elitaria ma una musica per tutti, un rituale offerto spesso in luoghi di cultura (i magici loft di New York), con una certa informalità che non guastava… È vero, si era creato uno spazio interessante tra generi: personaggi come Steve Lacy saltavano allegramente tra situazioni diverse, avendo il dono dell’intelligenza e della curiosità a sperimentare e a mettersi in gioco.

Hai collaborato con una miriade di musicisti, accademici e non: mi incuriosisce la tua relazione artistica con Basinski e John Duncan, me ne puoi parlare? 

La più grande fortuna di un musicista che vive nel contemporaneo è di poter collaborare con altri musicisti rubando esperienze preziose per la propria formazione. Personalmente credo di aver imparato moltissimo da strumentisti con i quali ho avuto la fortuna di suonare più volte (Stefano Scodanibbio e Irvine Arditti in primis), da compositori (qui la lista sarebbe molto lunga…) e da musicisti cosiddetti “trasversali”. In questo gruppo inserirei Duncan e Basinski, che sono stati due incontri decisamente importanti per me. John Duncan lo conoscevo attraverso amici comuni a Bologna. Avevamo ventilato entrambi il desiderio di fare qualcosa insieme e quando Ariele (Monti) mi propose un concerto all’Area Sismica, ne approfittai subito, coinvolgendolo. Abbiamo pensato per Area Sismica una performance molto radicale, utilizzando suoni sinusoidali molto acuti. Questo lavoro è stato registrato ed è poi uscito su un disco Mazagran (Loops4ever, nel 2011). L’incontro con Billy Basinski risale al 2014. Conoscevo ognuno dei suoi dischi, ne ero letteralmente ammaliato. Insieme ad Alter Ego lo invitammo ad un concerto per la Biennale di Venezia dove lavorammo ad una versione acustica di Disintegration Loops. Fu un’esperienza memorabile, per tutti. Dopo, a caldo, avendo ancora sulla pelle i frutti di quell’adrenalina, mi cimentai in un secondo progetto, reinterpretando un frammento di un suo vecchio brano, A Movement In Chrome Primitive. L’accordo era che cominciassi io a mandare qualcosa, poi Billy avrebbe dovuto manipolare il materiale e passarmelo ancora, e così via fino ad esaurimento. Ma non appena ricevette la mia prima versione, ne fu così felice che non volle toccarla…

In Again & Again racconti di esserti confrontato con i sacri mostri della musica minimale, rielaborando alcune composizioni con nuovi suoni e nuovi strumenti: come nasce questo disco e da dove nasce la fascinazione per i compositori dell’Est Europa e per quelli che tu definisci outsider (Skempton, Tenney, Volans)? 

A&A ha una lunga storia. Quando decisi di iniziare a registrare dei dischi, mi misi all’opera con tantissimo materiale. La gran parte di queste registrazioni, rimaste a sedimentare per oltre 10 anni, ha alimentato il nucleo principale di questo disco, che è il mio ultimo in ordine di cronologico ma anche il primo ad apparire sulla scena (nella mia testa). La scelta dei compositori coinvolti deriva da esperienze dirette sul campo. In quegli anni, soprattutto con Alter Ego, ebbi modo di incontrarli praticamente tutti e di stabilire collaborazioni preziose. Nel 1995 scoprii alcuni dischi Hungaroton e si aprì una finestra sulla musica minimalista ungherese. Presi un treno e andai a Budapest per due mesi, così li conobbi tutti. Uno per uno: Laszlo Sary, Peter Eotvos, Zoltan Jeney, Tibor Szemzo… Idem con la musica lituana: non appena ho scoperto il filone, ho approfondito subito, inizialmente con Rytis Mazulis, un compositore straordinario. Poi via via con tutti gli altri…  Skempton e Volans sono due personaggi fantastici, sono un ammiratore sincero del loro lavoro e ogni volta che si crea la possibilità di suonare la loro musica, sono letteralmente felice. Purtroppo non sono mai riuscito a incontrare James Tenney. Uno dei grandi compositori di questo secolo…

Che percezione hai della situazione in Italia per le musiche d’avanguardia? Pubblico, critica, luoghi, i rapporti con le istituzioni? 

Non frequento il mondo delle istituzioni. Credo che ognuno debba fare onestamente il proprio lavoro. Io non potrei rinunciare per niente al mondo ai miei spazi e ai miei tempi. E un musicista (così come qualunque altro artista) deve essere in grado di volare, pensando esclusivamente al proprio lavoro.

Hai provato a vivere altrove ma sei tornato sempre a Roma: come mai non ti sei allontanato definitivamente dall’Italia? Quale la tua patria ideale musicalmente? 

Nel 2000 mi sono trasferito a Londra con la mia famiglia. Ho approfittato di un’occasione dal momento che mia moglie aveva vinto un posto all’Università. Pensavo di trovare il Paradiso, invece è stata un’esperienza devastante. Ho scoperto una città dura, difficile. Non ho retto alla tensione. C’erano già tutti i sintomi di una bella depressione, quindi siamo ritornati a Roma. Considera che io amo Londra! Ho tanti amici e mi capita abbastanza spesso di andare a suonare. Ma una cosa è vivere in una città, un’altra è frequentarla per una settimana… La patria ideale è quella dove sei in pace con la tua coscienza. Dove vivi bene. Dove le cose semplici della vita superano di gran lunga quelle complicate.

Cinque dischi della vita e i tuoi prossimi progetti, dopo il completamento del ciclo sul minimalismo? 

In ordine sparso, non in ordine di importanza….

Giacinto Scelsi: l’opera per coro e orchestra, dir. J. Wittenbach (Accord)
L’Espace Acoustique di Gerard Grisey (Kairos)
Lohengrin di Salvatore Sciarrino (Ricordi)
A dei Pan Sonic (My Ears)
5 Professor Bad Trip di Fausto Romitelli (Cyprus)

Anche se avevo giurato a me stesso di tacere per un tempo imprecisato, avendo pubblicato anche troppi dischi negli ultimi anni, non sono riuscito a mettere il freno e sto lavorando a un nuovo progetto con Gianni Antognozzi per la sua ANTS, in collaborazione con il sassofonista Gianni Gebbia. Poi c’è un progetto straordinario con Die Schachtel per recuperare i materiali audio di Alter Ego nella sua lunga militanza. Usciranno a luglio i primi due vinili con Matmos e Pan Sonic, seguiti da un cofanetto monstre di 5 cd.

Ci descrivi il repertorio con il quale ti confronterai al Forlì Open Music Festival? Affronterai anche una composizione di Anthony Pateras, del quale ci è capitato di occuparci, sulle pagine di The New Noise.

Presenterò tre lavori a Forlì oltre a Debussy (Syrinx) che è il tema del Forlì Open Festival. Il primo pezzo del concerto è di Ricardas Kabelis, un compositore ultra minimalista lituano col quale ho lavorato a un ciclo di brani intitolati Sutartine, originalmente 7 per 70 minuti di musica (naturalmente suonerò solo uno dei 7 pezzi). Poi c’è un nuovo lavoro di Riccardo Nova, Rudram and Bija Mantras, tratto dall’opera da camera Mahabarata che sarà presentata alla Philarmonie di Essen l’anno prossimo. Un pezzo assolutamente straordinario. E poi c’è un lavoro che Anthony Pateras ha scritto recentemente, per ottavino e nastro. Un pezzo di grande impatto, estremo e ruvido, che può sembrare monolitico ma che ha un tessuto molto cangiante al suo interno. Sono molto contento di incontrare Anthony, è la prima volta che lavoreremo insieme.