JOCHEN ARBEIT – PAOLO SPACCAMONTI, CLN

Le tre lettere del titolo non nascondono nessun significato esoterico o astruso ma si rifanno alla toponomastica del capoluogo piemontese: il riferimento diventa qui un richiamo al concetto di duplicità, una simmetria imperfetta che si specchia in quella dell’omonima piazza torinese. Risistemata durante il ventennio da Marcello Piacentini, Piazza CLN, oltre ad essere tristemente nota come centro delle operazioni della Gestapo durante l’occupazione tedesca, quando ancora si chiamava Piazza delle Due Chiese, è presente nell’immaginario collettivo poiché da qui prende il via la sequela di omicidi nel massimo capolavoro di Dario Argento, “Profondo Rosso”. Le note di CLN, però, più che ai fotogrammi granguignoleschi della pellicola del ‘75, si accostano bene alla Torino insonne delle pagine di Giorgio De Maria, il quale nelle sue “Venti Giornate” racconta di una città popolata da presenze evanescenti, stranianti, sepolte sotto una coltre di menzogne.

Jochen Arbeit, che viene da una militanza ultraventennale negli Einstürzende Neubauten, da tempo coltiva frequentazioni musicali sabaude nelle persone di Fabrizio Modonese Palumbo e Paul Beauchamp (ormai torinese acquisito: peraltro CLN è stato registrato presso O.F.F. Studio), con i quali ha lavorato ad un paio di dischi: qui porta in dote la sua chitarra scabra e tagliente a Paolo Spaccamonti, chitarrista dalle rare capacità immaginifiche. CLN è frutto di una session di tre ore diventata poi un disco di trenta minuti: sette brani contraddistinti unicamente dalla numerazione, talmente eloquenti ed evocativi da non necessitare neppure di un titolo. Ci troviamo al cospetto di psichedelia maledettamente ispirata, circonfusa di calor bianco: in questo senso la scelta del vinile candido operata da Boring Machines ed Escape From Today rimane quanto mai azzeccata. L’uso che i due fanno dell’effettistica appare fantasioso eppure saggio, una modalità di azione che esalta il suono delle chitarre e il talento di chi le imbraccia anziché mortificare entrambi, come troppo spesso accade. Il pezzo d’apertura è solcato da un falso bordone d’organo, che possiamo ipotizzare provenga in realtà da una prima chitarra, a cui la seconda si abbarbica ritrosa, rintuzzando nel contempo con le corde basse. La traccia successiva – come pure sarà l’ultima – è un tappeto fittamente intessuto di latrati e distorsioni slabbrate; la III è tensione purissima giocata attorno a un battito cardiaco, ed è destinata a sciogliersi dolcemente nel finale. La traccia IV contrappone materiale sonoro volatile a uno strumming ipnotico saldamente ancorato, mentre la V incastona una sorta di blues, torrido e sonnacchioso, su quel bordone che, di nuovo, sembra provenire da tutto fuorché da una sei corde. Manca ancora all’appello la VI: si tratta di una placida distesa ronzante su cui si stagliano guizzi argentini.

L’atmosfera generale non è quella del duetto (distinguere chi faccia cosa diventa un lavoro improbo oltreché superfluo) né tantomeno quella del duello: in CLN direi piuttosto si realizzi un’intima comunione fra due lavori di ricerca meticolosa del suono che – aspetto fondamentale in questo tipo di operazioni – dà alla luce un disco estremamente piacevole all’ascolto.