Il terzo paesaggio di Marta De Pascalis

Marta De Pascalis

Lei sarà a Transmissions a novembre. Se seguite The New Noise, la conoscete fin dal suo esordio autoprodotto del 2014, Quitratue, album ambient all’interno del quale, per citare la recensione, vagava in una specie di limbo acquoso/vaporoso, che – come si sa – può essere pacificante come trasmettere inquietudine, poi avrete sentito la sua cassetta del 2016 sulla molto à la page Tapeworm, con la quale la sua cifra espressiva cambiava in parte (e quella attuale le somiglia), visto che i due pezzi erano il risultato ultraterreno di improvvisazioni con synth e loop analogici. Oggi la troviamo con un full length sulla Morphine di Sua Maestà Rabih Beaini: Sonus Ruinae è in vendita dal 7 settembre e abita una dimensione separata dalla realtà, con un suono incollocabile temporalmente (potrebbe essere uscito negli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso oppure qualcosa che ascolteremo tra cinquant’anni) e con un passo altrettanto personale, lento e leggero (questa, insieme alla trasognatezza, è un po’ una carratteristica costante della produzione di questa compositrice), come di qualcuno che in mezzo alla rovina si perde, senza l’ansia di ritrovarsi.

A sei anni dalla sua prima apparizione sul sito, finalmente è arrivato il momento di fare quattro chiacchiere con Marta De Pascalis.

Il nostro primo contatto è avvenuto tramite Franz Rosati, romano. Dove andavi a vedere i concerti quando vivevi a Roma? Con chi condividevi la tua musica e il tuo interesse per la musica?

Marta De Pascalis: Dunque, per i concerti a Roma mi spostavo ovunque ve ne fossero di mio interesse. Sicuramente negli ultimi anni passavo parecchio tempo al Fanfulla e Dalverme. Mi vedevo lì in zona con il mio circolo di amici o spesso ci andavo anche volentieri da sola e stringevo legami sul posto. Per quanto riguarda la condivisione musicale più attiva, facevo parte di un collettivo chiamato Dromoscope con Daniele De Santis, Fabio Perletta, Davide Luciani, lo stesso Franz e altri musicisti/producer. Con loro ho fatto le prime esperienze live, sia a Roma che a Berlino, avevo un progetto che si chiamava Maesia, suonavo idm e glitch, computer music. Non ho mai pubblicato nulla di quel materiale lì, ma lo considero comunque come un periodo formativo fondamentale.

Ora sei a Berlino. È a Berlino che sei riuscita a entrare in contatto con la Morphine? Chiedo perché Rabih Beaini ha vissuto per un periodo anche in Italia.

Io e Rabih ci siamo conosciuti a Berlino anni fa piuttosto per caso in un bar, analogamente a tanti altri incontri fortuiti che avvengono in quella città. Quando recentemente mi ha chiesto se avessi avuto voglia di pubblicare qualcosa per la Morphine, sono stata molto felice sia in termini di ricambio di stima che sul piano pratico – avevo molto materiale registrato ed una sorta di orizzonte pragmatico di release mi ha aiutata a chiudere il progetto.
La Morphine è una etichetta che ho sempre seguito con moltissimo interesse, alcuni dischi che Rabih ha stampato sono stati fondamentali per me, come i lavori dei Senyawa e di Charles Cohen. Avevamo invitato quest’ultimo, via Rabih, a suonare in un bar a Berlino dove lavoravo mi sembra nel 2014, aveva piazzato il Buchla sul bancone e aveva suonato 6 ore o giù di lì… Oggi, invece, mentre ti scrivo, su Morphine è stato aperto il pre-order di un altro bel disco, della Praed Orchestra!, una band che include – tra gli altri – Raed Yassin, Paed Conca, Radwan Moumneh ed Alan Bishop. Fanno un misto di shaabi, psychedelic rock, free-jazz ed elettronica veramente super.

Diversamente dalla stragrande maggioranza dei tuoi colleghi, non importa quanto grossi o quanto underground, non sei iper-produttiva. È una cosa voluta o semplicemente non hai tempo (tutti dobbiamo lavorare per mangiare)?

Se per produzione s’intende il prodotto finito che arriva all’ascoltatore, considerando conseguentemente il tempo di ricerca un tempo di non produzione, allora certamente non sono iper-produttiva. Ma personalmente non ragiono con questa logica, e cerco di prendermi tutto il tempo necessario (salvo deadline incombenti) per ricerca, studio e esercizio, che considero allo stesso modo tempo di produzione. Di certo non in termini consumistico / capitalistici.

Il tema di questa domanda vorrebbe all’incirca essere “realizzare musica elettronica (passami il termine) con strumentazione analogica e magari desueta”. “I dream of wires”, si intitola un documentario di cui abbiamo parlato anche noi. A un certo punto, perché me l’hanno proposto, io ho finito per fare uno speciale su di un’azienda americana che si è rimessa a fare sintetizzatori, degli pseudo-Buchla. Tu perché lavori così adesso? Quando entra in gioco il digitale, se entra in gioco?

Come accennavo prima, un tempo per produrre usavo principalmente il computer. Un giorno – ti parlo del 2012, credo – stavo facendo un live a Berlino in quel posto che adesso si chiama OHM (prima era lo Shift) e mi sentivo estremamente annoiata dallo stare davanti lo schermo con un controller.
Dunque mi son detta che dovevo fermarmi e rivedere il mio setup. Quindi ho messo mano su sintetizzatori e nastri e lentamente ho cominciato a costruirmi il mio suono.
I synth che in questo momento prediligo sono analogici. Nonostante ciò non ho nulla contro il digitale, anzi ci sono alcuni pezzi fatti con synth digitali nel disco. Credo comunque che siano più che altro i software e gli schermi ad annoiarmi, mi ispira di più metter mano sugli strumenti. Dunque va bene anche digitale purché sia hardware, per ora: non escludo affatto a prescindere di voler reintegrare, in futuro, i software nelle mie pratiche musicali.

Un altro tema tuo – e ricorrente in questi anni – è quello del suono che si corrompe: perché ti piace l’imperfezione?

Mi affascina tantissimo il suono che scaturisce dal divenire del supporto, in questo caso il nastro. Lo trovo unico a livello di pasta sonora, ed inoltre, per quanto riguarda nello specifico i tape loops, concettualmente si sposano perfettamente con la questione del “suono rovine” attorno alla quale gira il disco: i pattern che si ripetono, corrosi dal tempo, risvegliano la memoria di chi li ascolta, come dei déjà vu che si ritrova ad avere chi contempla una rovina. Il tempo consuma tutto, dalle statue di marmo ai nastri e le tape machines, muta l’aspetto del mondo, i suoi suoni, gli dà un carattere “imperfetto” come dici tu, ed unico, vorrei aggiungere io. Per me i tape loops sono in un certo senso delle rovine soniche, e mi ci trovo a mio agio, forse perché sono cresciuta a Roma, una città disseminata di rovine.

Collegata alla domanda precedente: perché l’improvvisazione al posto della composizione?

In realtà uso entrambe le tecniche, sia improvvisazione libera che composizione. Nel disco ci sono pezzi composti frase per frase, altri completamente improvvisati. Diciamo che dal momento in cui mi siedo davanti agli strumenti posso prendere strade diverse, dipende da cosa ho voglia di fare. A volte lavoro per esprimere un certo tipo di mood, ed allora vado di composizione, altre invece è suonando liberamente che esce fuori un mood e provo ad inseguirlo.
Per il discorso del tape looping, invece, è un misto delle due tecniche: prima costruisco una struttura armonica poi ci improvviso sopra facendo i loop sui nastri al momento.

Il tuo nuovo disco non suona come niente altro che ho ascoltato di recente. Questa è una constatazione, non una ruffianeria. Di sicuro apre in automatico alcuni cassetti della mia memoria, quindi in qualche modo mi sembra provenire dal passato, ma trovo difficile appiccicarci uno o due aggettivi calzanti, è come se mi scappassero di mano. Tu ne hai? Mi dai una chiave di lettura, anche minima?

Il disco è ispirato alla sopracitata “dimensione rovina”. Rovina come residuo del passato che stabilisce il rapporto tra presente e futuro, come evocazione di ciò che non c’è, testimonianza dell’inesorabile scorrere del tempo.
Per descrivere lo scambio con questo wasteland, questa sorta di terzo paesaggio che esiste solo attraverso lo sguardo di chi lo contempla, come ad esempio era per i poeti romantici che vissero a Roma nell’ottocento e scrissero di rovine, dai quali ho preso ispirazione per alcuni titoli, ho provato a stendere una sorta di soundtrack che potrebbe risuonare attraversandolo trasversalmente: dall’accesso allo spazio rovina attraverso un elemento architettonico (“Volta”), fino al raggiungimento della sua estremità che dà sul suo mare (“The Echoing Shore”).

Caterina Barbieri, Kali Malone, Sarah Davachi, Lingua Ignota, Pharmakon, Ellen Arkbro… c’è un trend? O semplicemente e finalmente c’è la parità? O un po’ tutte e due le cose?

Se ti facessi una lista di nomi di tuoi colleghi del tuo stesso sesso (peraltro leggo un solo nome di donna nel roster di The New Noise), e ti chiedessi se secondo te fosse un trend, o se fosse rappresentativo di una disparità di genere, cosa mi diresti?
Suonare è un’esigenza, non certo un trend. Come scrivere, o svolgere qualsiasi altra mansione si ritenga di proprio interesse. Per quanto riguarda i promoter e curatele varie, è giusto e sacrosanto che ci si occupi di parità nelle line up. Io personalmente mi sono sentita sempre poco invogliata, anzi piuttosto scoraggiata, a divincolarmi in mondi totalmente maschili: ad esempio, alla scuola di tecnico del suono eravamo in due ragazze in tutto l’istituto, mi sentivo una specie di aliena e molto spesso invece di provare a sgomitare nel mondo del lavoro testosteronico e maschilista, preferivo di gran lunga lasciar perdere.
Se fossi cresciuta in ambienti più egualitari ed inclusivi mi sarei sentita sicuramente più a mio agio, mossa di più e probabilmente avrei raggiunto obiettivi molto più velocemente o, meglio, con la stessa velocità di un uomo.
Comunque crescendo mi sono piano piano emancipata, soprattutto leggendo, viaggiando, discutendo l’argomento il più possibile, ed ho cominciato a scrollarmi di dosso quella sensazione aliena che percepivo da adolescente.
Penso che ora la questione della differenza di genere (almeno in ambito musicale) stia transitando verso una parità più stabile, in tanti ambienti è già totalmente assimilata, fluida ed estesa fino alle comunità LGBTQI, mentre in altri c’è ancora tantissima strada da fare, ma sono fiduciosa sul fatto che non si faranno passi indietro.

Cosa stai preparando per il tuo live a Transmissions? Il cartellone è bello anche quest’anno: chi ti vedrai con gusto tra gli altri invitati?

Al Transmissions suonerò Sonus Ruinae, non vedo l’ora, sia di suonare che di godermi con gusto tutti gli invitati, negli ultimi 9 mesi mi sono vista solo un paio di live acustici, e mi manca tantissimo sentire musica loud sui sound system. Forse, tra tutti gli artisti del roster, quella che sono più curiosa di sentir suonare è Laurel Halo: non mi è ancora capitato di vederla dal vivo.