Handmade Festival, 11/6/2017

Reggio Emilia, Tagliata di Guastalla.

Metro Crowd

Giunge alla decima edizione il festival fatto a mano organizzato da Jonathan Clancy (di His Clancyness e Maple Death Records) e i Welcome Back Sailors sull’argine del fiume Po, a un tiro di schioppo dal paese di Zavattini. Dalle prime edizioni organizzate al Cleb, nella sala prove dei ragazzi della bassa, di strada ne è stata fatta oramai molta, il festival richiama sempre un foltissimo pubblico e quest’anno ha sciorinato la bellezza di quattro palchi – uno in più del solito, con l’aggiunta del Roof Stage all’entrata, dedicato ai progetti più  intimi e solisti o quasi – e ventisette (!) live, dalle due di pomeriggio sino a ben oltre la mezzanotte, in una maratona perfettamente organizzata, che ha permesso a tutti di godersi la festa nel miglior modo possibile.

Al netto delle osservazioni di carattere sociologico che si potrebbero fare sulla composizione dell’audience (diversa ad esempio da quella accorsa a Milano per lo Zuma), concentriamoci sulla musica, che è quella per la quale maciniamo così spesso chilometri, anche se stavolta il viaggio è stato  breve.

Faccio appena in tempo a sentire l’ultimo pezzo di ThreeLakes & The Flatland Eagles, band i cui ci sono alcune vecchie conoscenze (Three in One Gentleman Suit), per certificarne classe e bravura, mentre sul set – sul palco curato da Musica Nelle Valli – di Avocadoz/Setti me la cavo diplomaticamente e rapidamente dicendo che sono su lidi molto, molto lontani da quelli che mi possono destare interesse. Al contrario, serve spendere qualche parola per Rainbow Island e per il suo live ipnotico e trascinante, purtroppo funestato da problemi tecnici proprio quando stava decollando, ma si tratta di un progetto che spero di poter di nuovo rivedere presto e per un tempo più consono. Avvolgenti spirali sintetiche a intrecciarsi con sincopi kraute di batteria, con voce iper-effettata a sorvolare lo scenario appena creato creato: panorami in technicolor per un trip che ricorda l’ipnosi di Sun Araw e la febbre percussiva di un’elettronica umanista e sfatta. Muovo testa e bacino in segno di approvazione e di resa, pienamente conquistato dal ritmo. A seguire Metro Crowd, filologici nel ripercorrere strade già battute tra la fine dei Settanta e gli Ottanta: un suono anfetaminico, scuro, ossessivo e minaccioso, metronomico, un post-punk grigio e ansiogeno che mette in campo non troppe idee ma le amministra con sapienza. Un poco monocordi, dunque, ma convinti e abbastanza convincenti.

Con pause scandite con precisione svizzera, dopo cinque minuti è il turno, di nuovo sul palco curato da Tiziano Sgarbi aka Bob Corn, di Everest Magma, che santifica e benedice tutti con una potente escursione in un drone rituale che punta al cielo, chiusa da una parentesi nonsense in playback che lascia un po’ il tempo che trova. Bello comunque, con un video e al buio sarebbe stato di grandissimo impatto.

Hey Colossus

Pierre & Bastien, dalla Francia, bastonano invece con sputi secchi e asciutti suonati con perizia e la giusta dose di attitudine e muscoli, ma non mi appassionano più di tanto. Si attraversa la Manica per approdare al set degli Hey Colossus, su Rocket Recordings, indecisi tra post-hardcore e post-rock (certi arpeggi alle mie orecchie suonano davvero fuori tempo massimo), con tre chitarre che però non dicono molto e un cantante che si danna sul palco e mischia da buon inglese vino rosso e birra, senza lasciare però grande traccia di sé. Un suono che abbiamo già sentito tante volte negli anni Novanta, e con più personalità e inventiva. Cascao & Lady Maru ci portano in discoteca, a un rave debosciato: la gente balla e si prende bene, io non mi diverto granché e mollo la presa dopo poco.

Le cose vanno meglio con Stromboli: si torna al drone, in tonalità metalliche, e con un’enfasi che riesce si ferma prima di diventare retorica. Bravo.

Perdo i Triptides, o forse no, ma francamente non mi ricordo ora (scrivo la mattina dopo il festival, e sono andato ad acqua per tutta la giornata) nemmeno che faccia avessero, e forse un motivo ci sarà. Movie Star Junkies sono classici e maturi nel loro rock‘n’roll energico e stradaiolo, Mistery Lights, dalla California, fanno revival duro e puro ma con grande bravura: profumi di West Coast, garage, psichedelia, pure la Farfisa d’ordinanza. Pezzi brevi e trascinanti, suonati con ottimo piglio. Promossi a pieni voti. Come Sarathy Korwar, giovanissimo batterista indiano che in trio con tastiera e chitarra sposta il baricentro del festival su territori differenti, tra fragranze indiane, ritmi dispari ed escursioni poliritmiche. Un poco fuori contesto, ma proprio per questo davvero interessante. Chris Cohen passa senza lasciare ricordi particolari, del resto manca poco al live dei Califone e la stanchezza (un concerto dopo l’altro dalle due di pomeriggio dopo aver fatto sette ore di ospedale il giorno prima mette a dura prova anche uno spirito rock’n’roll come il mio) cede il passo all’attesa per il live di questa band che è semplicemente un pezzo del mio cuore. Non felicissima forse la scelta di piazzarli alle undici di sera sul proscenio principale, ché il pubblico non introdotto forse non si aspetta a quest’ora le loro polverose nenie folkish. Io invece sono venuto apposta o quasi, e la band di Tim Rutili riesce ancora ad ammaliare con le sue canzoni sghembe e dimesse, malinconiche ma non sdolcinate, una versione aggiornata della old time music arrangiata con gusto modernista e un sapiente lavoro di armonie vocali e di percussioni. Eseguono, come nel resto del lungo tour italiano che si conclude oggi, il loro disco Roomsound, ed è proprio il suono di una stanza con le assi di legno un poco imbarcate e la porta che lascia entrare spifferi quello che sentiamo, una stanza al centro della quale sta seduto Rutili, con in braccio una chitarra come fosse un figlio fragile, che fa soffrire ma al tempo stesso consola. L’unica stanza di una casa da cui qualcuno se n’è andato, lasciando orme e ricordi. Senza tempo.

Quando i Föllakzoid attaccano il loro groove space il mio passaggio a casa mi fa segno di andare, per cui ne sento solo giusto un attacco: ci sarà senz’altro occasione di recuperare. Al prossimo anno Handmade, e complimenti davvero ai ragazzi dell’organizzazione, se li meritano proprio tutti.

Grazie e Chiara Viola Donati per le foto.