GRAND RIVER, All Above


Gli occhi dispersi di Aimée Portioli troneggiano sulla copertina del suo nuovo All Above, uno sguardo intenso che appare in affannosa adorazione di forze sconosciute e inebrianti, prigioniero di un horror vacui metafisico che evapora lasciando dietro di sé un disco stratificato e complicato. Una complessità dipanata su otto tracce che richiedono fin dal primo attimo la massima attenzione. Questa estatica ricerca dell’ignoto porta l’artista italo-olandese a testare il confine tra analogico e digitale attraverso un mosaico di onde sonore e bit, per una simbiosi particolarmente efficace nel riuscire a far vibrare l’ascolto. La verve da sound designer di Portioli esce vigorosa in questo concept, pensato come un’immaginaria colonna sonora di un film che mai esisterà. D’altronde il palmares recente della ragazza trapiantata a Berlino parla da solo, e moltissime volte lo fa in italiano: le ultime sue uscite, inframezzate da molteplici collaborazioni per installazioni audio/video di vario genere, hanno visto spesso presenti figure del Belpaese, passando da nomi come quello di Marco Ciceri a quello del Professore della techno Donato Dozzy (e la sua etichetta Spazio Disponibile, su cui è uscito il lavoro di Grand River targato 2018).

L’esperienza a 360 gradi di Portioli ci offre un lp in grado di modulare un’atmosfera che avvolge e coinvolge con muto trasporto, un tuffo a bomba che ci fa immergere nell’acustico per poi risalire a galla nel digitale, incasellando qua e là frammenti audio che fanno mantenere il contatto con il reale. La peculiarità di All Above prende vita già dall’iniziale “Quasicristallo”, con un pianoforte registrato così da vicino da far risuonare tutta la sua fisicità analogica. È il preludio a un valzer tra i due Mondi che appare davanti ai nostri occhi in pezzi come “Human” e soprattutto la gloriosa “In The Present As The Future”, dove linee differenti convergono in una moltitudine sonora che risulta la perfetta summa di tutto il lotto di tracce. Il resto sono ritmi/non-ritmi che vanno e vengono (come in “Kura”) e una generale sensazione di docile spaesamento che culla fino alle note finali di “Cost What It May”, glitch basato su chitarre imbizzarrite che chiude il disco nella maniera più inattesa, un ultimo rilascio di tensione oscura che rimette a posto umano e sovrumano, con l’occhio che torna a osservare con rispettosa distanza tutta la furia di quello che ci sovrasta.

Il pregio maggiore di questa uscita di Grand River è la risonanza emotiva, causata sia da forze sia positive, sia negative, un esperimento riuscito che non può lasciare indifferenti.