Gazebo Penguins, e questo è Quanto

Gazebo Penguins, foto di Stefano Bazzano

Durante i due anni in cui è successo di tutto, è stato fatto di tutto e tutto si è detto, l’assenza di alcune realtà musicali ha fatto da contraltare a quel chiacchiericcio costante di fondo che spesso non portava da nessuna parte e, anzi, diventava caricatura, probabilmente figlio di quella mancanza improvvisa, di quell’assenza totalizzante della vita di molte persone al di là dell’aspetto lavorativo e di sostentamento economico, abituate ad avere nel concerto un momento di socialità, in alcuni casi esclusiva.

E proprio da questa esclusività, da questa necessità di ricreare meccanismi centrali sfumati da quelle troppe e ridondanti chiacchiere che i Gazebo Penguins hanno deciso di ripartire, loro che non partecipano mai al carrozzone dell’onnipresenza social ma sono attivisti della presenza sociale e considerano la musica per quella che è: espressione del proprio io, divulgazione culturale, aggregazione sociale, condivisione degli spazi e strumento di libertà.

Quattro concerti dieci giorni prima che si potesse ascoltare il loro ultimo disco, Quanto, pubblicato il 16 dicembre per Garrincha Dischi e To Lose La Track. Quattro momenti esclusivi per chi c’era, per chi ha voluto partecipare ad un esperimento di ascolto ad occhi chiusi, perché di questo si parla oggi che tutto è svelato spesso ancora prima di essere pubblicato, svendendo qualunque momento della creazione artistica, sempre meno priva di mistero e per questo spesso poco profonda.

Prima della data al Circolo della Musica di Rivoli (TO) ho fatto quattro chiacchiere con Capra per avere le sue di sensazioni, positive sin dall’inizio di questo nuovo esordio e che ho poi riscontrato nel live.

«E questo è Quanto» (cit.)

Quattro date in cui avete presentato un disco non ancora uscito, com’è andata?

Capra: Sai che è molto interessante?! Chiaramente noi eravamo emozionati, cosa che non succedeva da un sacco di tempo, e c’era anche una certa dose di sospetto rispetto quello che saremmo andati a fare. Suoniamo per la prima volta, nostra e di chi è venuto a sentirci, delle canzoni nuove e quindi si crea questa situazione strana, come se fosse una specie di tensione repressa, tanto che poi abbiamo chiesto anche a persone che conoscevamo tra il pubblico come fosse stata percepita la cosa. È come se tu aumentassi la pressione dentro un vaso, però non riesce ad esplodere perché comunque sei lì per scoprire qualcosa di nuovo, che è un po’ anche lo scopo di questa operazione: far sì che un concerto non diventasse semplicemente l’andare incontro a qualcosa che conosci o che vuoi esperire perché lo conosci ma anche di scoperta. Vai ad un concerto perché vuoi conoscere, vuoi fare un’esperienza inedita e la cosa ha funzionato. C’è tutta questa prima parte in cui suoniamo le canzoni inedite che fanno crescere una bella tensione, e si percepisce, scalpita, per poi arrivare ad un momento in cui può esplodere. 

Come succede le prime volte da perfetti sconosciuti su di un palco e il pubblico è sempre in quell’equilibrio tra l’ascolto attento, per capire se ciò che ascolta piace, e magari la voglia di lasciarsi andare a ciò che non si conosce. La differenza, in questo caso, è che quel pubblico vi conosce molto bene ma non sa cosa andrete a suonare.

È proprio una cosa del genere, una specie di nuovo esordio. Torniamo ad essere esordienti dopo 17 anni, forse 18, e centinaia di concerti, e la cosa è galvanizzante, sicuramente. Poi c’è anche il riscontro immediato dell’acquisto del disco dopo il concerto, cosa che ovviamente ci fa molto piacere. La gente se ne andava a casa con il disco da poter ascoltare per una decina di giorni prima di chiunque altro. Non solo l’hai sentito per la prima volta dal vivo ma puoi anche ascoltarlo per i fatti tuoi, diversamente dalle persone che non sono venute quella sera o che hanno deciso di non comprarlo, magari non gli interessava. La decisione di suonare prima dell’uscita del disco, circa dieci giorni prima, voleva anche ridare centralità (qui fa una pausa lunga ed emette un profondo sospiro che sembra voler aggiungere “finalmente!”, ndr) al momento del live, al momento del concerto che è da vivere dal vivo. Musica dal vivo significa essere lì con altre persone vive e creare di nuovo una specie di convivialità di cui abbiamo sentito molto la mancanza.

Questa modalità di promozione del disco è stata accentuata da due anni di pandemia o l’avevate comunque già in testa?

Non l’avevamo in testa prima del Covid, quindi ha influenzato. I collegamenti sotto-testuali ci sono senz’altro, poi da qui a dirti è stato per quello no, perché il progetto insieme alle etichette è stato strutturato così, il Covid chiaramente su tutta la musica dal vivo c’entra e ci entrerà ancora per un po’.

Come l’avete vissuto il tour delle sedie dello scorso anno?

È stato al 50% emozionante e al 50% avvilente. È stato emozionante perché le persone che poi sono venute erano insospettabilmente in tante, e perché ci siamo riscoperti. Le tue canzoni vestite in una maniera che non avresti mai immaginato di potere o voler fare. Avvilente perché era chiaro fosse una cosa che avremmo voluto non fare, che ci siamo sentiti di fare perché volevamo dare un segnale agli altri e a noi stessi come band sulla possibilità di vivere ancora la musica dal vivo. E perché si sarebbe potuto fare diversamente senza creare nessun problema. Raccontavamo prima a cena di questa data che per pioggia, in un centro sociale a Napoli durante quel tour delle sedie, è stata completamente stravolta: si è dovuto smontare tutto e ci si è dovuti spostare in un piccolo luogo coperto in questa zona franca del centro sociale, e messo in piedi un concerto di venti minuti, il più punk hardcore forse della nostra storia. E questo il giorno dopo ci ha fatto decidere che avremmo finito quelle date e poi non lo avremmo fatto più.

Sono più o meno diciassette anni che esistete e parlare di longevità musicale in questo periodo è difficile, siete delle mosche bianche. Avete una storia molto lunga e non con un numero spropositato di dischi ma con dischi pubblicati ogni volta in cui ne sentivate l’esigenza. Potrebbe essere questo uno dei segreti di lunga vita: fare le cose quando si sente il bisogno senza farsi incastrare da certi meccanismi?

In realtà non ci avevo mai pensato, però forse sì, forse è evidente che se vivi la musica come un’espressione che arriva quando c’è una tua necessità, senza vincoli e costrizioni esterne, contratti, bisogno di stare visibili o paura di scomparire, lo fai perché in quel momento lì è tutto quello che vuoi e non potresti fare diversamente e chiaramente la tua linfa vitale non viene sprecata in tutto quello che non è necessario. Non ci avevo mai pensato in realtà, quindi mi piace come teoria. Mi piace, interessante.

Parlando di Quanto, che disco è?

È un disco nato molto più in silenzio, perché siamo andati in sala prove con i pezzi già finiti. Quindi sono stati tutti composti nelle nostre case, o assieme a casa di Sollo, davanti ad un computer a volumi bassi ad esempio, con molta programmazione, anche le batterie etc. Ed una volta convinti siamo andati in sala, abbiamo sistemato ma bene o male era scritto. Per quella che è la nostra modalità scrivere un disco prende tutto il tempo che gli serve, ci sono pezzi vecchissimi ridisegnati, altri venuti fuori poco prima di entrare in studio e una valanga di brani non finiti in questo disco. Il concetto un po’ di fondo era partire da delle visioni del mondo care alla teoria della relatività o meccanica quantistica per far nascere delle storie che ci riguardassero, un po’ come collante, e quindi giostrare su concetti di spazio-tempo, cosmologia, relatività, esistenza o meno del vuoto, tutte cose che permeano al 100% l’esistenza, la materia, il mondo in cui viviamo ma a cui al 99% delle volte non badiamo, e giustamente. Tra l’altro, una delle sottotrame del disco è che tutte le rivoluzioni cognitive della meccanica quantistica non ci riguardano, non cambiano il nostro modo di vivere. Sapere che una particella può influire su un’altra particella a chilometri e chilometri di distanza senza che possano comunicare, che un esito di laboratorio sia identico e che faccia magari sottintendere che tutta la materia sia collegata e si parli, è probabile che sia così, migliaia di esperimenti lo confermano, non cambia la nostra vita, i nostri semafori, l’erba che ci cresce in giardino o i figli che devono essere portati all’asilo. La complessità alle volte non ci serve a niente.

Concetti che si ritrovano anche nella musica, è un album diverso questo, è tutto più dilatato e diversamente complesso rispetto ai precedenti. È meno esplicitamente Gazebo Penguins.

C’è sempre questa dicotomia su cui ci piace lavorare, essere una band che cerca di rimanere in qualche modo coerente con il proprio modo di vedere la musica ma evitando di diventare la cover band di sé stessa. Ci piace l’idea che se qualcuno da qualche parte sente la nostra canzone possa avere il sospetto che siano i Gazebo Penguins, senza dire: “Vabbè, questi sono i Gazebo Penguins”, oppure “Ah cavolo, forse questo è un pezzo nuovo…”, questo sarebbe l’ideale. E quindi stiamo sempre lì a cercare soluzioni nuove, anche per me i suoni di questo disco sono completamente diversi, ho cercato un respiro più internazionale, se vuoi, senza però tradire quello che è il personale modo di gestire le amplificazioni, le chitarre e le cose.

Infatti il primo singolo, “Nubifragio”, segue un po’ un certo andamento generalizzato nell’utilizzo dei fiati.

Noi ce lo vedevamo dall’inizio, non vedevamo l’ora di trovare una persona adatta e quando abbiamo fatto le prove con Manuel (Caliumi, ndr), che è il sax nel brano, è stata una figata.

In una band con una longevità come la vostra e con questo affiatamento, com’è il rapporto tra i singoli al di fuori della band, oggi? Immagino sia cambiato un po’ il rapporto. 

Il discorso è che avendo sempre suonato tantissimo ci vedevamo tanto e solo in tour, quasi. L’aver sospeso i tour ci ha fatto anche riscoprire come amici senza la musica, in un certo senso, per poi tornare amici con la musica nel momento in cui abbiamo iniziato a parlare di un disco nuovo. Sai, quando in un anno e mezzo o due fai, o facevi, 130 date, vuol dire che praticamente tutte le settimane sei assieme e quindi appena hai scaricato gli strumenti ti saluti velocemente e via sgommando (risate, ndr). È bello però non è che voglio passare tutti i giorni della mia vita con loro.

Il disco non è stato pubblicato prima di aver fatto queste quattro date, ma come avete gestito i social? I Gazeboleaks. Perché un po’ di video dal pubblico che “anticipavano” spezzoni del disco erano in giro.

Oggi in radio dicevo che magari dopo averlo comprato lo metteranno su YouTube come negli anni 2000, e invece mi hanno detto che non va più e che li passi su Telegram. Te lo sapevi?

Sì, hanno chiuso di recente un canale storico in cui venivano distribuiti i quotidiani in versione digitale senza il filtro dell’abbonamento.

Quindi adesso non li caricano più sul tubo ma su Telegram.

Andrò a cercare e ti faccio sapere.