FUXA, Covered In Stars

È dalla metà degli anni Novanta che gli americani Fuxa di Randall Nieman non smettono di esibire prove della loro esistenza. Line up rimaneggiata più volte ma idee sempre ben precise sul sound: un doppio registro fatto di tossicità bambina psych ’60 ed elettronica bianco-slavata; suoni tenui nei risvolti e spazi dove il rapporto grande-piccolo è uno spioncino dal quale ammirare il panorama in viaggio. Senza timore di smentita possiamo considerarli i padri di tanti nuovi psichedelici degli anni Duemila intenti a trafficare con sonorità elettroniche ed elevazioni kraute (faccio un nome su tutti: Vacant Lots). Per questo nuovo “Covered In Stars” Randall ritrova due ex componenti della band, Richard Formby e Stefan Persson, e firma un album buono, dritto al punto, che si spera possa attrarre nuovi ascoltatori, oltre a ridestare quelli vecchi che non avevano più notizie di loro dal 2015. Momenti alti: i due pezzi con voce di  Britta Philips a corredo (“Help Me Please” e “The Sun Is Shining”) che sembrano volerci dire chiaramente “siamo tornati e siamo sempre quelli di sempre, non sbagli”; la curiosa incursione nell’estetica John Foxx, senza perdere di eleganza e tenendo il mood lisergico tra il vorticare delle ombre (“Mr X.”); la carezza ambientale che mescola l’ignoto spazio profondo e bucolico paesaggio verdeggiante (“Cluster Fuxa”), il preciso senso della forma nella sgambettata a metà tra Cavern Of Anti-Matter e Sonic Boom (“Mary”). Sempre così uguali a sé stessi e sempre così diversi, i Fuxa non ridisegnano alcun futuro né giocano di sponde con facili retromanie. Vivono semplicemente (e con gioia) in quella dimensione del sogno troppo spesso falcidiata dall’eterno presente globale e i suoi bagni di realtà gonfiati dall’incalzare ansiogeno. Ultima cosa: il disco piacerà a chi è rimasto intrigato da quell’ottovolante sampledelico della strana coppia Panda Bear – Sonic Boom uscito quest’anno.