EMMA RUTH RUNDLE, 16/2/2023

Bologna, Teatro San Leonardo.

Your ribbon cut from all the fates
Some hound of hell looking for handouts

Soli e abbandonati, frastornati, vuoti e pieni, si sta in questo ascolto. Sapevo che sarebbe stato disturbante e faticoso, ma dopo essere andata fino a Berlino lo scorso luglio appositamente per vederla, dormire e tornare a casa, era chiaro che per lei sarei andata anche in un eremo sperduto della Birmania, o nel tempio in Giordania in cui Indiana Jones ne “L’Ultima Crociata” compie il leap of faith per riuscire a prendere il sacro Graal, o persino a Cocomaro di Focomorto – non me ne vogliano gli eventuali lettori di Cocomaro – sapendo che comunque vada, ne vale la pena.

In questi giorni si è concluso il secondo tour europeo di Emma Ruth Rundle in cui ha suonato Engine Of Hell, il suo sesto album, uscito nel 2021 per Sargent House. Noi l’abbiamo intercettata a Bologna al Teatro San Leonardo, gremito di gente rimasta anche in piedi dietro a improbabili colonne; un pubblico di nero vestito, devoto e rispettoso, che subito si è sintonizzato su frequenze intime e interiori.

Qualcosa di spirituale, grave ma al contempo libero, introdotto da Jo Quail, violoncellista e compositrice londinese che sembra tuttavia proveniente da Valinor, terra elfica del Signore degli Anelli: nonostante la componente busker conferita da un abuso di loop station con il violoncello elettrico, dona un prezioso contributo atmosferico all’endurance emotiva che segue.

A book a piano, gifts from the muse in your selfless way
My teacher my feeder, this redhead’s going nowhere since you’ve gone away

Le luci si spengono tutte e le nuvole si addensano più ci si addentra nell’ascolto di Engine Of Hell, che Emma suona dall’inizio alla fine senza deviazioni, ringraziando ripetutamente, spiegando talvolta il concetto alla base di alcune scelte, condividendone il peso. Radicale, ridotto all’osso, totalmente altro rispetto a ogni cosa da lei fatta prima, con solo la sua voce accompagnata da pianoforte a coda o chitarra, arrangiamenti semplici ma chirurgici e aderenti al contenuto emotivo. Nel silenzio le corde del pianoforte sono estensione delle mani e ogni minimo sussulto neurale precipita nella musica, un doom-gaze cantautorale, un folk gotico talvolta quasi carolingio, di una Giovanna D’Arco senza armatura.

So loud that the company I keep it’s just mine, t’s the center of my troubles
And white is the colour of the noise it’s making

A tratti ritorna il soundscaping in cui risuona il passato post-metal esplorato con Nocturnes, Red Sparowes e Marriages, sino ad un ispirato space-rock del pezzo che chiude l’album; di questo è fatto il meccanismo infernale. Da profondi respiri ad acuti falsetti, contiamo quei respiri come fossero monete per passare oltre, all’altra sponda dell’Acheronte. Uniti al pianoforte questi ultimi fanno pensare a Tori Amos in album viscerali – se non uterini – come Boys For Pele, o a PJ Harvey che si ridisegna da zero in White Chalk. In questa austerità è possibile misurare la convivenza fra la componente espressiva e una solida tecnica, mai gridata e virtuosa, ma anzi sempre molto aderente all’insieme.

I’ll be spinning like the girl in glass slippers at the last supper
There’s no need to check the weather as my winter’s never over

Umorale, si vive con lei la fatica di restare in questa condizione di vulnerabilità, che nell’ascolto del disco porta ad un’immersione sempre più approfondita, mentre nell’esperienza live si ha talvolta uno slittamento di questa disponibilità, come difronte ad una persona che passa dall’oversharing al mutismo in modo repentino. Da arrangiamenti rielaborati di pezzi come “Blooms Of Oblivion” o “Citadel” (suonata con Jo Quail), all’improvvisa troncatura di alcuni altri, forse troppo difficili da rivivere ogni sera durante il tour. Nell’encore suona “Marked For Death” dall’omonimo disco del 2016 e chiude con “Pump Organ Song”, una b-side pubblicata separatamente da Engine Of Hell, ballata gotica scritta per il Evan Patterson (Jaye Jayle), donandoci così l’ultima goccia di sangue.

Here in my citadel of self, I
I can be safe

Cosa resta da prima? Cosa ne è dei caratteristici ritmi cavalcata, con reverb, delay e drone che rendevano meno distinta la sua manifestazione? Nulla resta, si è passati oltre, ma non con l’ego di chi, virtuosamente impegnato ad oltrepassare ogni barriera, ha dimenticato come si suona col cuore, oltre che con dita, testa e sistema nervoso.

I have the feeling that I might be here, for a while
Rift and directionless, that I might spin myself

Inferno, ma anche purgatorio, Lazarus, Judas, Magdalena, Adam, Sodom, sono le figure bibliche che compaiono nella narrazione, calate in un contesto quotidiano, una Emily Dickinson che incontra William Blake. Nonostante questo emerge una scrittura senza sovrastrutture, il complesso mondo espressivo di una persona che ha vissuto tante sfaccettature dell’esistenza, una maturità che succede solo quando arrivi a vivere un pezzo della tua vita. La perdita, la fine dell’amore, la morte di una nonna-madre, la tossicodipendenza, il coraggio di vivere in questa waste-land, di sopravviversi, di crescersi sopra, come edera sui sepolcri. Un dirsi: ti ho perduta, ti ho trovata, ti ho perdonata.

I raised a flag / In foreign lands
Waiting for my own war to end
I took a love there / And he took my hand
But I spoke a language he could not understand
And how does it ends?