DES MOINES, Like Freshly Mown Grass

Simone Romei, da Reggio Emilia, è Des Moines, musicista devoto al fingerpicking, a certo folk aperto e in punta di dita, a Nick Drake, alla stasi ipnotica di John Fahey. Otto canzoni per voce e chitarra acustica, impreziosite dagli interventi di Egle Sommacal dei Massimo Volume (che è anche produttore ed arrangiatore degli archi), Andrea Rovacchi dei Julie’s Haircut al piano, Samuele Riva al violoncello, Emanuele Reverberi (Giardini Di Mirò) al violino e Mali Yea (anche nei droners Dolpo) allo shruti box ed alla tampura.

Nulla di nuovo sotto il sole, ma la differenza la fanno la sensibilità e il tocco di Simone e gli arrangiamenti, che aprono il guscio delle melodie per estrarne il gheriglio. E sono piccoli frutti melodici che cadono a terra all’inizio di autunno, anche se il titolo fa riferimento alla primavera; puro distillato faheyano è “Crickets And Cicadas”, che potrebbe essere stata incisa da Sommacal al suo esordio, Legno, per  la oramai defunta Unhip Records (2007). Quel sapore indefinibile, languido e torbato, che sta esattamente al crocicchio tra Blues del Delta, minimalismo folk, stasi ed estasi, e che fa ritornare a galla anche bevenutissime memorie di certi Gastr Del Sol, altezza Camoufleur (l’hillbilly trasfigurato in preghiera acustica di “Black Horse”, un pezzo che commuove ancora oggi a vent’anni di distanza). Più vicina a certe atmosfere West Coast “Daffodils”, psichedelica e intima, una perfetta musica per un risveglio a precipizio sull’Oceano o affacciati su una qualche cima di montagna (Des Moines ha sangue montanaro nelle vene, e in qualche modo questo si avverte nel disco, che è abitato da un sentimento da grandi spazi). Sempre “Daffodils” sorprende poi con un andamento arioso ed imprevisto: una piccola sinfonia in miniatura in cui forse gli interventi degli altri strumenti potevano essere anche un po’ meno discreti, ma è comunque davvero un buonissimo pezzo. “Wood Gathering” apre un sipario sulle vaste anse di un fiume (Il Gange? Il Po? Il Mississipi?) ed evoca filmati in Super8, finestre appannate, erba (ecco, il titolo) appena tagliata, quel senso di vita urgente che scappa, poi la polvere, che resta e ci fa chinare il capo, suggestioni lontane che toccano dentro dove non tutti sanno arrivare, oppure una perfetta colonna sonora per Nebraska di c. Se qualche volta l’assonanza con i modelli è fin troppo esplicita (“Love In Vain”, davvero un calco di Drake), a risultare però sempre vivo e vibrante è il respiro che muove queste canzoni, che nascono da una immersione devota, profonda e totale in questi suoni (e per chi scrive qualsiasi sputo del bardo di Tanworth-in-Arden vale oro): il resto lo fanno piccoli accorgimenti (in questo caso un mandolino che regala un’ombra diversa al pezzo), la voce docile e amichevole di Simone, che non è indimenticabile, ma ha il grande pregio di suonare naturale e credibile, per nulla impostata, sembra quella di un amico che ti apre il cuore dopo aver speso un inverno intero piegato sulla chitarra per sentire, pensare e comporre questi otto delicati marchingegni. Che sono pezzi di ottimo artigianato, di quelli che puoi trovare in una gita fuori porta la domenica sul fiume in quel luogo dell’anima che è la sterminata provincia. Fatti a mano da vecchi con la faccia rugosa e le mani storte, il sorriso limpido, le guance rubizze per qualche bicchiere. Non ci sono pose, in questo disco, only a man and his guitar, con i suoi fantasmi, i suoi languori, le sue memorie sgranate e virate seppia, i suoi amori, non c’è plastica.

Tra brume American Primitive e luminoso songwriting, Des Moines è dunque senz’altro un nome da segnarsi in agenda. In certi frangenti mi ha ricordato i dimenticatissimi Cods, che nel lontano 2003 avevano pubblicato con Mexicat (l’etichetta di Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo) un disco, Sperochettùstia, che in alcuni momenti era un vero e proprio gioiello. La stessa poesia dei margini, lo stesso indugiare sulla soglia, con canzoni a mezza voce, lo stesso senso di resa che anima il post-rock meno didascalico (anche se qui di post-rock non c’è nulla), nessuna inutile enfasi, solo la nuda verità di un pugno di melodie che arrivano all’orecchio semplici (e questo è un pregio) ma sono pensate, calibrate, orchestrate (la title-track, molto buona, che chiude perfettamente il disco, con una sospensione che sa di rimpianto e di attesa).

Fossi in Des Moines, nel futuro tenterei il grande e difficile salto: anche dal vivo cercherei di esibirmi con una band, basterebbero pochi elementi, anche solo un trio, proverei a scrivere in italiano, e magari proverei ad avere un grammo di coraggio in più in fase di composizione. Nel mentre comunque salutiamo con gioia la nascita di un musicista che ha il dono di rendere universale il privato, di far apparire chiaro e condivisibile il suo mondo intimo, avvolto da tiepide nebbie acustiche, sotto il quale brilla però un talento da coltivare. Presentazione ufficiale del disco il 6 ottobre al circolo Arci Mattatoyo di Carpi (Modena): Des Moines in concerto con un duo di archi ed Egle Sommacal.

Tracklist

01. Afternoon Sun
02. Happy Smiles
03. Crickets And Cicadas
04. Daffodils
05. Wood Gathering
06. Love In Vain
07. Whippoorwill
08. Like Freshly Mown Grass