DEDEKIND CUT, Tahoe

Lee Bannon ha dimostrato gusto per certe sonorità prettamente ambientali sin dagli esordi, quando ancora si faceva chiamare con il proprio nome e navigava tra hip hop, elettronica e drum’n’bass. Già il suo ultimo disco su Ninja Tune (Pattern Of Excel, 2015), prima dell’adozione del moniker Dedekind Cut, mostrava una decisa virata verso l’ambient tout court, anche se ancora “sporcato” dalle scorie ritmiche e dagli improvvisi slanci rumoristi che poi troveranno maggior definizione in $uccessor, uscito due anni fa per Non Worldwide. Una svolta che il producer statunitense non ha remore a chiamare “new age”, termine che definire problematico attualmente parrebbe un colossale eufemismo.

Per fortuna non stiamo parlando di flauti di Pan su di un tappeto di richiami di cetacei, anche se il richiamo al lago Tahoe nella Sierra Nevada contenuto nel titolo anticipa un certo appeal acquatico sempre presente nell’ovattato e placido flusso dell’oretta scarsa di quest’ultimo album. Là dove $uccessor metteva in scena una dinamica un tantino più agitata e, se vogliamo, conflittuale, tra tappeti di synth, registrazioni d’ambiente e scarti industrial, qui in Tahoe gli stessi elementi vengono adoperati in maniera più sobria e soffusa, procedendo apparentemente con estrema lentezza da abissi sottomarini in cui le forme sono offuscate e nell’ombra, emergendo in modo graduale mentre gli elementi si moltiplicano e attraversano il campo dell’ascoltatore calato nel ruolo di un ipotetico palombaro che viene tirato su. Le lunghe ondate ricorsive di synth dei primi minuti vengono via via solcate da cori para-angelici, canti armonici, tastiere quasi alla Vangelis, archi digitali, sporadiche scariche elettriche e scrosci d’acqua. Spettri sonori che, più che seguire un percorso delineato, galleggiano ora sopra, ora sotto il centro dell’attenzione. Esemplari in questo i nove minuti di “MMXIX” e i dodici minuti di “Hollow Earth”, in cui il quieto immobilismo si alterna a un caleidoscopio di accenni di visioni fantasmatiche.

E il tutto sarebbe stato molto più affascinante se l’acqua dell’ampolla in cui Bannon ci ha buttato fosse stata più limpida. Troppo prevedibili i momenti di calma, quanto frequenti i dubbi che il sound-design sia governato a volte dal caso e a volte da una visione che il producer forse ancora non riesce a focalizzare per bene. Per ogni minuto in cui pare di avere a che fare con una colonna sonora di un ipotetico remake di “Abyss” con Herzog al posto di Cameron, ce n’è un altro in cui molto più semplicemente ci si limita a nuotare nella noia.