COLIN STETSON, Chim​æ​ra I

Colin Stetson rappresenta un buon esempio di massimalismo, tensione estrema nel rapporto fra artista e proprio strumento. L’obiettivo di un album come Chimæra I (edito dall’australiana Room40 di English) potrebbe essere visto come l’invasione totalizzante di un attore (Stetson stesso) nell’altro (il sassofono) e viceversa. La creazione di un Cyborg di suono, una massa oleosa e dai contorni sfuggenti, capace di mutare rapidamente la propria consistenza, dall’umano all’inanimato, ingannare l’orecchio, creare miraggi.

Non è certo la prima occasione in cui l’artista americano dà prova di queste velleità trans-umane. La sua discografia è fiorente in quanto a sperimentazioni del genere, per non parlare delle collaborazioni illustri, da Bon Iver a Guilmor, passando per Animal Collective e Arcade Fire. Prestare i propri polmoni ad altri, però, non è lo stesso che indagare in solitudine le potenzialità sonore del proprio corpo. Non parliamo volutamente di sassofono (di varie forme e dimensioni, assieme ad altri strumenti a fiato padroneggiati tutti con maestria) ma di una, appunto, Chimæra, organismo ibrido che emerge dall’interfaccia fra umano e suono/strumento. Espandersi in ogni possibile rappresentazione di questo rapporto, esplorarla, riempirla di contenuto, azzerare qualunque spiraglio di vuoto o di silenzio sembra essere il manifesto concettuale che emerge dall’ascolto di questi quaranta minuti di drone granitici.

Il disco si sviluppa in due lunghe composizioni, “Orthus” e “Cerberus”, i cani infernali a due teste, progenie di Echidna e Tifone, posti a guardia dei cancelli dell’Ade. Il richiamo, oltre che alle atmosfere sulfuree dei brani, è implicitamente diretto all’immaginare sé stesso e il proprio strumento come un mutante, una nuova creatura liminale bicefala la cui esistenza inizia e finisce nel rapporto fra gli elementi in gioco.

Oltre alle implicazioni tecniche che questa nuova ontologia prevede (modalità di registrazione, estensione delle capacità sonore del sassofono, microfoni a contatto, stratificazione, esteso uso del riverbero ecc…), addentrarsi in questi territori di confine genera, a catena, interessanti problematiche sull’autorialità, sulle limitazioni materiali del corpo, sull’agency, o volontà, del materiale acustico e del sassofono, in quanto attori inanimati, all’interno dell’ecologia performer-suono.

È emblematico e interessante soffermarsi sulle strategie che artiste ed artisti diversi adottano per risolvere, o solo avvicinare, queste criticità. Nel caso di Colin Stetson il massimalismo (che in realtà implode, nel corso dell’ascolto, in austero e speculare minimalismo) sembra quasi una reazione di difesa, un’aggressione per sopravvivenza, davanti alla vertigine creata dall’essere un mutante, un bicefalo.

Stetson agisce, urla, investe il suono e il sassofono con forza per cercare di emergere, per non essere dissolto. Ma è come nuotare contro la corrente. Il magma oscuro oltre la comprensione e la finitezza del corpo lo avvolge, lo annulla. Rimane solo una materia densa, monolitica e vibrante.