BIG|BRAVE, nature morte

Quando guardo un dipinto, mi piace avvicinarmi e osservare i grumi di pittura che si sono solidificati dopo il colpo del pennello. Quei fendenti così intensi che puoi quasi visualizzare la mano dell’artista che incide la tela con tutta la sua foga, dei promemoria perpetui sulla presenza dell’umano nell’arte. Se ti avvicini ad osservare meglio la natura morta dei Big|Brave, settimo capitolo di una carriera finora in costante ascesa, si può notare una grossa quantità di queste esplosioni di vernice, che colano con lentezza diabolica sul dipinto del terzetto canadese. La sua cornucopia doom marcisce davanti ai nostri occhi, liberando tutta la vita che solo la morte sa scatenare. Una vitalità purulenta, crepuscolare, che sguscia dagli anfratti più bui inglobando ogni frammento di ossigeno. Un disco che chiude totalmente le porte a qualunque forma di luce. Tutto ruota attorno alla voce della cantante Robin Wattie, che ammetto essere difficile da digerire per le mie orecchie. Le chitarre stanno nel peggiore dei gironi infernali, mentre lei fluttua in cielo ad altezze siderali, disegnando linee vocali che riecheggiano Björk. Però, una volta fatta pace con gli accenti di lei, si aprono abissi dove apprezzarne le doti, come nel caso delle sue scorribande in apertura, su “Carvers, Farriers And Knaves”.

Entrando nel dettaglio dell’ascolto, nature morte appare come un disco lento e denso, che avanza nell’oscurità dosando le melodie come oasi nel deserto, sembrando a volte quasi prigioniero di sé stesso. I pezzi non si discostano molto dai precedenti e dagli archetipi utilizzati finora dal gruppo, che sta affinando un suono con cui continuare a scendere per quella scala a chiocciola che conduce agli inferi più sulfurei. Degli interessanti esperimenti psychedelic-folk scaturiti dalla collaborazione coi The Body (due anni fa), infatti, non c’è più traccia: nel quadro tetro dei Big|Brave c’è spazio solo per quel sound diretto, monotono e duro che ce li ha fatti conoscere. Così nel buio pesto si staglia un muro di drone tetro, intorno al quale pellegrinaggi post-metal dal peso specifico immenso plasmano una tracklist monolitica. Pezzi come “The Fable Of Subjugation” e “A Parable Of The Trusting” si fondano su una doppia natura, partendo silenti per poi esplodere con le chitarre, sbavando e riempiendo le cuffie, vibrando senza sosta fino a un apice in cui la band percuote questa tela metaforica con l’ennesimo afflato funesto. Rimbombo dopo rimbombo, scalino dopo scalino, la discesa risulta sempre più inevitabile.

La formula funziona per vecchi e nuovi fan, su questo non si discute. Il crudo risultato della loro foga artistica sta lì a dimostrarlo, a perpetua memoria. Lo stile dei tre è definito e ben oliato, ma arrivati a questo punto della loro carriera ci si aspetterebbe un passo più in là, qualcosa che faccia trasalire, togliendoci dalla zona di (dis)comfort a cui ci hanno abituato. Nella bolla dei Big|Brave si sta bene, mentre si fluttua in questo liquido amniotico terso, ma buttare un’occhiata fuori potrebbe aprire nuovi orizzonti inesplorati.