Antonio Rezza: Dio è un suono (ossessioni, ritmo e dispositivi)

Rezza, foto di Giulio Mazzi

Quest’intervista ha avuto una storia travagliata: dopo averla registrata, la rivista per cui era stata fatta, Alfabeta 2, ha chiuso, poi il telefono sul quale era stata registrata si è allagato nei boschi dei Paesi Baschi, l’intervistatore ha avuto una operazione al cuore ed infine ci è voluto del tempo per trovare dove finalmente pubblicarla (Paese strano, il nostro), ma andava proprio fatto, non fosse altro per la chicca finale, ma anche per tutto quello che ci sta in mezzo. Una salutare boccata di antiretorica. Se Dio è un suono e quello di Rezza Mastrella, come dice Rezza stesso, non è teatro, ma ritmo, allora non sarà fuori luogo una intervista al grande (il migliore in Italia, dice lui, ed in effetti non mi sento di dargli torto) performer sulle colonne di un sito che si occupa di musica (tra l’altro ce ne eravamo già occupati qui) . Per le ragioni sopra esposte, per altre che poi probabilmente verranno in futuro e perché gli spettacoli di questa coppia geniale hanno la stessa forza dirompente dei dischi che ci entusiasmano. E infatti, così come torniamo a quei dischi, torniamo a teatro o altrove per vedere e rivedere i loro spettacoli, impossibili da mandare a memoria (non essendoci trama) ed ogni volta capaci di strappare una risata unica, diversa. Pensandolo come fosse una musica, il teatro di Rezza e Mastrella sarebbe una specie di funk storto e assurdista, suonato da voci e corpi, dove i significati svaniscono e l’urgenza e la perfezione del meccanismo sanciscono il loro matematico dominio. Dopo la quarantena e la chiusura, la coppia torna finalmente dal vivo, le prime date confermate sono il 13 luglio a Villafranca (VE), il 15 luglio a Reggio Emilia ed il 16 a Gualtieri (RE). Qui il calendario completo. Consigliamo inoltre di fare un giro sul sito opendbb, dove potete trovare una serie di video notevoli (Milano, via Padova, un documentario sul razzismo, ad esempio), tra cui tre cortometraggi inediti. La prima volta che ho avuto un contatto – seppur breve – diretto con Sua Vulcanicità è stato a Mantova, a teatro. Prima dello spettacolo stava nel foyer a palleggiare con un pallone e allora, incuriosito dalla scena, ho acceso la miccia della conversazione e lui si è rivelato gioviale e molto disponibile. Vedendo i suoi spettacoli qualcuno potrebbe pensare forse il contrario, visto il suo approccio provocatorio col pubblico, ma fa tutto parte del grande artificio messo in atto, che viene spesso scambiato per un meccanismo naturale, ingenerando così equivoci. Così, dialogando, mi ha confessato che quella sera aveva invitato Boninsegna, storico bomber, di cui lui era fan da ragazzino. Probabilmente per questa memoria calcistica (tra l’altro nello spettacolo “Io” uno dei tormentoni ricorrenti è Mazzola), la conversazione che abbiamo avuto qualche tempo fa, in tempi precedenti l’epidemia, inizia parlando di Cristiano Ronaldo.

Antonio Rezza: Sono un grande fan di Ronaldo.

Cosa ti piace di lui?

Mi piace la disciplina. Stiamo parlando di un atleta che dimostra che il talento senza la disciplina non basta, come diceva una volta una pubblicità, non voglio dire di chi.

 Era la potenza senza controllo, in realtà: così diceva la pubblicità.

Il talento senza disciplina te lo dai in faccia. Mi piace la disciplina quando diventa ossessiva.

E allora Maradona?

Stiamo parlando di un’eccezione, però. Anche Crujff. Fumavano, il sesso non veniva visto come distrazione. Crujff è stata una lacerazione nel calcio, Maradona invece come eccesso.
Mi dispiace del calcio che anche chi ha talento ma non ha rigore diventi ricco. Abbiamo avuto casi clamorosi di giocatori che non hanno saputo fare sacrifici nemmeno per dieci anni. Questa la giudico una grandissima ingiustizia. Nell’arte non è così. Il genio da solo non ce la fa, se non è rigoroso. Devi entrare in una dimensione monastica, se devi avere cura del corpo la devi avere, quello che fai lo devi fare, non devi aspettarti che il talento se non è accompagnato dall’ossessione ti basti: qualsiasi talento è fatto di alti e bassi, e i bassi non devono essere visti.

Non devono essere visti perché sono brutti?

Perché puoi essere pigro ed essere geniale. La pigrizia non è il mio caso, nemmeno quello di Bacon. Si vede da quello che uno fa, se uno è pigro.

Il tratto che accomuna i geni dunque è l’ossessione?

Ci sono anche geni che non hanno bisogno dell’ossessione, però secondo me se tu pensi quello che avrebbero potuto fare con l’ossessione…
La mia è una ossessione anche gestionale. Il nostro caso è atipico perché dobbiamo occuparci di tutto, anche della parte produttiva e burocratica. Non ci passa comunque mai la voglia, noi non prendiamo sovvenzionamenti statali quindi non dobbiamo rendicontare ciò che entra. Vedo compagnie giovani che passano l’anno non a fare spettacoli, ma a rendicontare con le pezze d’appoggio tutto quello che hanno preso dallo Stato, e io penso che sia un delitto.
Noi non facciamo teatro, facciamo ritmo, siamo in teatro per comodità, è il posto più comodo per allestire uno spazio, per farci ciò che vuoi. Noi i nostri spettacoli li facciamo ovunque: gallerie, musei, non abbiamo problemi ad uscire dal teatro.

Trovo molto interessante questa cosa: tu dici che non fai teatro eppure basta una semplice ricerca in rete per vedere come ci siano siti e siti pieni di recensioni di critici teatrali ai vostri lavori.

A noi interessa il teatro come luogo. La critica con noi è sempre stata generosa, perché chiaramente non può disconoscere il fatto che il nostro lavoro è diverso; non sempre usa gli strumenti tecnici per soddisfare la nostra idea di quello che facciamo, che fino a prova contraria è poi l’unica idea valida, visto che nessuno meglio di sé sa quello che fa. Quindi va bene così e bisogna capire che i critici non sono noi, ma sono Loro, come diciamo nella prefazione di “Clamori al vento”. La critica ci ha aiutato tanto, parlo sia di quella libera che quella istituzionale. Forse siamo antipatici per quello che dico io, probabilmente sono io che risulto fastidioso, visto che a volte faccio anche i nomi.

Ti leggo una recensione di “7 14 21 28”. Ne ho scelta una negativa, leggertene una positiva sarebbe stato inutile e poco interessante. “L’utilizzo di un secondo attore muto sul palco è inspiegabile. Un ragazzo che si presta ad essere preso in giro mentre corre sul palco coprendosi le mani non è divertente, è triste. Forse è proprio questo il sentimento che la coppia Rezza Mastrella vuole suscitare nel pubblico che al contrario ride del ragazzo ma non si comprende il motivo di tale risata. Resta il dubbio sul fine di questa performance che non è definibile in termini teatrali e sfugge persino le categorie della sperimentazione”. ( Valeria Giulia Carboni, Persinsala)

Me la devi mandare, perché è grandiosa, perché se uno ci ha visto questo, è giusto così. Chiaramente è arbitrario quello che dice. Quello che mi scoraggia è il fatto che se io le scrivo e la invito poi a venire a vedere il nostro spettacolo, lei diventa una nostra fan, e in uno spettacolo come “Fratto X” Ivan (Bellavista, ndr, l’attore assieme a Rezza in “7 13” e anche in “Fratto X”) non è certo vittima.

Com’è nato il pezzo sulle voci in “Fratto X”?

Dall’improvvisazione, da una scintilla. Anche io resto sorpreso e mi diverto, è il momento migliore per noi. Dopo c’è energia, per fare il G14 che mettiamo in scena in “Anelante” ci si allena finché non diventano veri e propri dispositivi, che come tali sono inadatti a fallire. Ci sono alcune minime variazioni tra una replica e l’altra, a volte qualche movimento dello spettacolo nuovo va a finire nello spettacolo precedente, visto che siamo pronti sempre a portarli tutti in scena.

Noi non abbiamo preferenze. Io preferisco “Anelante”, perché è il più fresco, è psicanalitico. “Fratto X” è un virtuosismo continuo. “Fotofinish” è quello che forse mi diverto di più a fare, più difficile da allestire, ha anche cambiato il nostro modo di fare. Con quello abbiamo abbandonato definitivamente i quadri di scena e tutto il resto, perché non volevamo né replicare né creare un teatro di genere, non ci serviva. La critica ci diceva di continuare ad usare i quadri di scena di “Pitecus”, e noi abbiamo deciso di passare ad altro. “Pitecus” oramai lo abbiamo classicizzato, ha trent’anni. 

“Pitecus” fa ancora ridere, dopo tutto questo tempo. A me è successa una cosa simpatica: la risata nel mio caso precedeva le tue battute e da questo era nata una scaramuccia col vicino di posto. 

Guarda, a volte capita che ci siano fan accaniti che si alzano in piedi e applaudono, la cosa mi mette in difficoltà, mi disturbavano; un conto è un applauso collettivo, ma purtroppo questo è l’affetto, che a volte è deleterio.

Nel libro (“Clamori al vento”, ndr) tu e Flavia Mastrella (da sempre complice di Rezza in ogni peripezia artistica, ndr) parlate della legge esatta del ritmo: come ci si arriva? C’è anche un lavoro importante sulla ripetizione.

Il ritmo siamo bravissimi a farlo, ma da solo non basta a variare la direzione, ma siccome abbiamo un senso dell’autocritica molto sviluppato, non ci basta. Il ritmo per essere diverso deve essere accompagnato da una messa in discussione continua di ciò che ti piace.

E poi il ritmo, come nella musica (mi vengono in mente il groove del funk, le linee basso e batteria di James Brown, minimali e ossessive) lo ottieni con la sottrazione. Mi viene in mente l’inizio di “Fratto X”, dove sparisci dal palco per diversi minuti. 

Sì, quello è un bel rischio, ma noi prima di andare in scena facciamo settanta/ottanta prove col pubblico. Quando si va sul palco non si può fallire; da sempre non andiamo con l’incognita del come sarà, perché altrimenti io non ci andrei proprio sul palco. Ci prendiamo già troppi rischi, non possiamo aggiungerne un altro.

Non si perde un po’ di “friccico”, sapendo già tutto?

No, perché quello è esponenziale. Noi proviamo con una quantità di persone a crescere, con simulazioni differenti finché non arriviamo a una audience simile a quella che ci sarà in teatro. Partiamo da 3, 10, 15, 30, 40, 70, 100: man mano cresce la risposta del pubblico, l’energia; cresce sempre, non si perde nulla. Lo spettacolo va solo guidato, è come una macchina, serve un pilota abile nel condurlo, diventa uno strumento del quale tu sei il pilota.

Per essere il pilota ti viene richiesta una certa forma fisica e una resistenza alla performance. Nel libro parli già di ipotetici scenari futuri quando dovessi avere meno forza, mi interessa questo aspetto.

Io adesso ce la faccio perfettamente, non so che succede al corpo. Mi fa pensare che alcuni spettacoli da un certo momento in poi non potrò farli più. Noi pensiamo che ci saranno presenze diradate da parte nostra, meno spettacoli, magari in posti più grandi. Faccio ginnastica, anche dura, due/tre volte alla settimana, poi vado a correre, giocavo a pallone perché mi piaceva tantissimo, palleggio tantissimo. I miei miti erano Boninsegna e Beccalossi.

A parte “Anelante”, c’è già uno spettacolo nuovo in cantiere?

Sì, però ora ci ritroviamo senza lo spazio dove storicamente abbiamo sempre creato e lavorato; dopo aver vinto il Leone d’Oro a Venezia veniamo cacciati da casa nostra, da questo luogo magico dove ci sono la chiesa, la ceramica, gli anziani, la palestra. Il comune di Nettuno, commissariato già per la terza volta, ha messo lo spazio sotto sgombero, noi non abbiamo alcuna aderenza politica e non garantiamo nessun utile a chi ci appoggia. Non c’è cosa più deliziosa che quella di cercare di fare il culo al potere. Non avevamo mai usato questi strumenti, ma per la crescita anche di chi verrà dopo di noi abbiamo deciso che è fondamentale questo scontro così importante: abbiamo chiesto anche l’usucapione del posto, una cosa che non avremmo mai pensato di fare. Un avvocato di Roma ha scoperto che abbiamo i titoli per stare lì e questa richiesta di usucapione porterebbe, se dovessimo vincere, alla creazione di una fondazione. Non si tratta di una cosa che andava fatta a tutti i costi: è una zona molto critica, dove viene data possibilità ad un revisionista neofascista di fare coreografie per l’anniversario dello sbarco. Avremmo potuto cogliere l’occasione per andarcene via, ma quando capisci che stai subendo un abuso forte rimani non tanto per amore di quel posto, ma anche e soprattutto come atto di resistenza naturale, forse nel posto sbagliato, non lo metto in dubito. Ma la battaglia per noi resta fondamentale. Sono mesi che non riusciamo a lavorare, io non sono più di quella città, quel posto resterà come la nostra ambasciata all’estero, lì non credo farò più niente. Lo spettacolo nuovo è in lavorazione, saremo ancora in tanti sul palco.

Chiudiamo con la televisione. Come vivete il rapporto col mezzo? 

Se ci fanno fare quello che vogliamo, ci andiamo.

Il fatto di essere ospitati in un contesto non modifica in alcun modo il vostro contributo, la vostra energia? 

Noi comunque andiamo a fare quello che vogliamo. Neri Marcorè è l’unico che ce lo ha fatto fare in tv. Quando ci lasciano liberi, noi andiamo dappertutto, non siamo razzisti. Il talento, quando è libero, fa paura.

Ultima questione, che nelle vostre cose torna in modo ricorrente: la religione.

Dio è un suono, non si può prescindere. Io ho studiato storia delle religioni, che è tutto tranne che religione. Ti accorgi che la nostra, anche a livello di aneddotica, è la più semplice, la più insulsa, la meno fantasiosa. Se studi le religioni dell’Estremo Oriente, quello in cui credono gli aborigeni, le civiltà del Messico, vedi che è tutto più strutturato e fantasioso. La nostra è la più banale e la meno affascinante, la Bibbia non è un libro che può stare alla pari con tutti gli altri che leggevo in quegli anni, soprattutto riguardanti le religioni politeiste. Ha sempre esercitato un gran fascino su di me il pensare a questa congregazione di esseri superiori che ci gestiscono, mentre qua per noi solo uno. Non a caso se è Dio a comandare da solo, ci sono stati il franchismo ed il fascismo. Dio anche se non esiste è un grosso impaccio. Dio è come Giancarlo Antognoni: quando giocava dicevano “Perchè non lo levano?”, quando manca, la domanda diventa “Perchè non c’è?”.