Esben And The Witch: una luce nel buio

Questa è la terza volta che intervisto Rachel Davies, in rigoroso total black illuminato dai raggi di sole che filtrano dalle finestre di casa. L’occasione è ovviamente quella di un nuovo disco degli Esben And The Witch, la band inglese, originaria di Brighton, che porta avanti dal 2008 in compagnia di Thomas Fisher e Daniel Copeman. Senz’altro la mia band preferita degli ultimi lustri: se il dato è soggettivo, la qualità è nero su bianco. La prima volta era accaduto esattamente un decennio fa, per il secondo capitolo di studio Wash The Sins Not Only The Face, il capitolo wave di una storia in perenne mutazione, pur nella riconoscibilità della “visione” di fondo. Quello degli Esben And The Witch è sempre stato un ne(r)o-romanticismo elettrico, capace di passare dall’algido dream drone-pop dell’esordio Violet Cries al già citato Wash The Sins Not Only The Face, dall’heavy post-rock di A New Nature al post-metal espanso di Older Terrors, sino al goth-punk di Nowhere. Hold Sacred è il sesto album del trio, quello più minimalista ed etereo, di non immediata assimilazione, eppure in un certo qual senso quello più speranzoso.

Mi fa piacere tu lo abbia notato, ma è interessante perché ad altri ascoltatori è sembrato il nostro disco più cupo. Ci annoiamo facilmente, perché siamo individui inquieti, quindi ci piace esplorare ogni volta nuove strade ma cerchiamo anche di mantenere un processo il più organico e spontaneo possibile. Dipende da come ci sentiamo sul momento: con i lavori precedenti volevamo scandagliare un lato più plumbeo e aggressivo, mentre con Hold Sacred volevamo essere più riflessivi e morbidi, anche perché abbiamo ascoltato molta musica ambient. Tutto ciò è confluito nel nuovo album.

Già, la direzione ambient di Hold Sacred sancisce un netto distacco rispetto al gruppo che eravamo abituati a conoscere, forse al suo apice di aggressività proprio con l’antecedente Nowhere, pubblicato nel 2018 da Season Of Mist. In Hold Sacred ci sono soltanto chitarre arpeggiate, singulti di basso, sporadici tasti dalla viscosità sottomarina, programmazioni e field recording appena percettibili. Non c’è batteria. Soprattutto, c’è la voce onirica di Davies, temerariamente protagonista, indifesa, come mai prima d’ora, come se provenisse da un luogo intangibile e inviolabile, a fare da guida, per riprendere il testo del primo singolo “The Well”, dentro a una paradigmatica cappella, un rifugio, dove mettersi al riparo dai mali e dal rumore maligno del mondo circostante.

Mi piace molto comporre e ascoltare melodie, anche addentrandomi in altri generi di musica. La strumentazione del disco è atmosferica, a livello musicale prevalgono essenzialità e delicatezza, per cui c’era bisogno di forti linee vocali per tenere tutto assieme. Forse, crescendo, mi sento maggiormente a mio agio nel mettere la mia voce ancora più in primo piano.

“The Well” sfodera tra l’altro un rimando interno a “Dig Your Fingers In”, uno dei brani relativamente più soffusi di A New Nature che, sebbene fosse un album ruvido e aspro, può dirsi vagamente affine a Hold Sacred nel sound ridotto all’osso, nello spirito umanista e nell’immaginario ampiamente contrassegnato dagli elementi della natura, passando dall’alto delle vette montuose alle profondità marine.

Posso essere d’accordo, specialmente sui riferimenti naturali. Trovo pace nello stare in mezzo alla natura. Mi rende felice e si collega a gran parte della poesia che leggo, ultimamente soprattutto Mary Oliver. Le sue poesie, splendide, sono infatti focalizzate sulla natura. Come esseri umani, è avvilente capire quanto siamo insignificanti nel grande schema generale delle cose.

Torniamo invece ancora a Nowhere per ricordare la presenza in scaletta di una traccia emblematica come “Desire For Light”. Un indizio premonitore, visto che Hold Sacred sembra cercare esplicito sollievo da universali abissi di esaurimento, depressione e ansia, anelando a qualcosa fuori dall’oscurità che, si speri, luccichi. Come dice David Lynch, dal fronte della sua saggezza venata di humour: Adoro vedere le persone uscire dall’oscurità. Ebbene, gli Esben And The Witch, per descriversi, affermano di cercare la luce nel buio da sempre, dagli albori a oggi. Nel loro pathos di dinamiche sonore e nella loro poetica, questa oscillazione fra tenebre e bagliori è una costante, proprio come nella vita.

Siamo sempre stati presi dal pensiero di cercare la luce nel buio. Ritengo che l’atto artistico sia speranzoso di per sé. L’atto di creare è bello, in maniera particolare se sei un soggetto cinico, come lo sono io, oppure disperato, arrabbiato. Una luce simile è un dono prezioso e sono lieta che mi aiuti a elaborare quel che mi succede, oppure se può essere di aiuto a qualcun altro in difficoltà.

Se Grouper o Tim Hecker approverebbero la svolta ambient, l’unico disco recente che accosterei a Hold Sacred, in termini di equivalente carica trascendentale, di suggestione che si stia compiendo un autentico rito tra magia e miracolo, è Ghosteen di Nick Cave And The Bad Seeds. È un bel complimento, me lo prendo!, ride la nostra interlocutrice. Si potrebbe parlare di una sorta di raccolta di preghiere pagane, partendo dai primi estratti “The Well”, immersione fiabesca-catartica su intreccio di corde auree, e “True Mirror”, disvelamento dell’anima a frantumarsi su tasti e pulsazioni sintetiche – entrambi accompagnati da videoclip mai talmente semplici, che ruotano attorno alla presenza introspettiva di Davies. Per procedere con l’incedere tenebroso di “In Ecstasy”, la cullante “The Depths” e la crepuscolare “Petals Of Ash”. Di devastante intensità è “Heathen”, che presta tra le righe titolo all’album stesso. Why should I kneel, if truly I can ascend?, si chiede con fermezza Davies, mentre brucia e fluttua come una stella, parafrasando il testo, attraverso il buio senza fine del futuro.

“Heathen” è la mia traccia preferita, perlomeno una delle mie preferite. Non ho mai parlato con nessuno prima d’ora di ciò che tratta, tu sei la prima a chiedermelo. Sul piano letterale, anche se non mi ci concentro mai più di tanto, è un dialogo sulla morte e sul credere in dio. Io non ci credo, perché mi considero agnostica più che atea. Mi fa piacere se le persone credono, in qualsiasi cosa vogliano credere. Penso però che le divinità che sono state create nel corso della storia siano abbastanza crudeli e non sono il tipo di divinità che vorrei adorare. È una resa dei conti di tutto questo e la risposta, per quanto mi riguarda, è trovare un culto e la forza in altre cose, oltre che in sé stessi. La canzone inizia come un botta-e-risposta tra dio e la versione di me in punto di morte. La conclusione è che, tutto sommato, preferisco occuparmi da sola del trapasso. Penso che il concetto di inferno sia orribile. Probabilmente è una delle canzoni più intense, sì, ed è anche quella di cui sono più orgogliosa. Sono contenta ti abbia colpito proprio questa, anche se temo non finirà tanto presto in radio…

Lo storytelling qui altamente emotivo di Davies, appassionata di letteratura, è un flusso di coscienza lirico. Ricordo dalle nostre precedenti conversazioni l’amore per Sylvia Plath, ma è il summenzionato nome del Premio Pulitzer Mary Oliver, in particolare l’antologia di poesie “Devotions”, a gettare innumerevoli, possibili ponti con Hold Sacred, dal rapporto controverso con il divino (Why do people keep asking to see / God’s identity papers when the darkness opening into morning / is more than enough?, da “I Wake Up Close To Morning”) alla ricorrenza di chiaroscuri e figure naturalistiche (si leggano “White Night”, “Sleeping In The Forest”), fino a una presa di coscienza orientata alla sottrazione (As I grew older the things I cared about grew fewer, but were more important, da “Storage”).

È interessante il fatto che, se in passato alcuni libri, film o dipinti mi avevano direttamente influenzata, questa volta non indicherei una specifica fonte di ispirazione. Ritengo che Hold Sacred sia il disco per me più vulnerabile in assoluto, quindi è almeno nelle intenzioni più aperto, nonostante le varie metafore e l’oscurità di fondo. Ed essere più aperta ha rappresentato una sfida. Il maggior influsso è stato proprio l’imperativo di essere coraggiosa, scrivere un disco che si relazionasse a poche componenti e non si nascondesse dietro a niente. Spogliato, nudo. Conflittuale in modo più emozionale. Ci sono minori suggestioni provenienti dall’esterno, perché il disco riflette i nostri sentimenti.

Non è un caso che Hold Scared voglia restituire la pura essenza della band, tanto che la lavorazione ha coinvolto solamente Davies, Fisher e Copeman, eludendo il coinvolgimento di produttori o terzi di qualsivoglia tipo.

Siamo sempre stati molto do it yourself, siamo dei control freak – e questo fa la differenza. Siamo soltanto noi tre. Siamo ottimi amici, di vecchia data. Siamo come una piccola famiglia. Ci fidiamo l’uno dell’altro, questo è molto importante per me. Abbiamo sempre composto i brani per conto nostro, ma stavolta Daniel si è occupato anche delle registrazioni, degli aspetti ingegneristici e del mix. Tutto ha riguardato noi tre e l’intera esperienza di composizione è stata parecchio intima.

A proposito di attitudine DIY, impossibile non pensare allora all’etichetta della medesima band, che marchia Hold Sacred come avvenuto per A New Nature, ovverosia la Nostromo Records, e al meraviglioso emporio online Haus Nostromo, dedicato al folklore e all’occulto, fondato e gestito da Rachel e Thomas.

So che suona tremendo affermare che non ci piace lavorare con nessun altro, ma nell’ottica della dinamica creativa per noi la gestione autonoma è davvero la situazione migliore. È una decisione difficile da intraprendere, da un punto di vista sia pratico sia logistico, ma sotto molti aspetti mi considero una purista. Da musicista, penso sia rilevante, come principio filosofico, detenere la proprietà dei propri master, cioè essere certi di tenere al sicuro qualcosa a cui tieni, a cui hai dedicato anni e anni della tua esistenza. È necessario rivendicarlo di nuovo, al di là dell’industria discografica. Per noi è diventato stimolante anche supportare con Haus Nostromo musica altrui, così come lavori di arte e letteratura. Investire del denaro, anche per formare una comunità, è stimolante persino sotto l’aspetto politico. È utile capire cosa significa realizzare qualcosa da soli, seppur in piccolo.

A cementare ulteriormente l’identità espressiva della band, Davies è attiva da tempo anche come illustratrice, per visioni dal mood gotico, rigorosamente in bianco e nero. Non sorprende, dunque, che si sia occupata in prima persona anche dell’artwork di Hold Sacred, al cui centro campeggia un cerchio di pigne, considerate emblema di eternità e resurrezione. Il cerchio simboleggia anche lo spazio sacro d’azione tratteggiato dai tre musicisti.

Per me è sempre stato fondamentale – perché, lo ripeto, sono una control freak – occuparmi di tutto. Mi piace creare qualcosa che sia coerente, che provenga dallo stesso “luogo”. Abbiamo sempre dedicato molta cura agli artwork dei dischi. Quello di Hold Sacred combina un disegno e un dipinto di background, che vanno a formare un’unica opera. Ho studiato Architettura anni fa, quindi ho sempre amato l’arte e ho disegnato tanto all’università, anche se non l’ho mai fatto professionalmente. Quando vivevo a Berlino e al solito svolgevo tante differenti occupazioni, ho lavorato anche in una caffetteria molto silenziosa, dove stavo sola quasi tutto il giorno, scorrendo e leggendo orribili notizie di cronaca. Avevo perciò bisogno di incanalare le mie energie nervose in qualcosa e ho iniziato a cimentarmi nelle illustrazioni, che mi calmavano. Adesso lo faccio con regolarità e mi piace molto. Suonare e cantare è una modalità potente di esternazione, mentre disegnare è un atto più meditativo.

Hold Sacred arriva a cinque anni di distanza da Nowhere. Non era mai trascorso così tanto tempo, per il trio, fra un album e l’altro. La lavorazione è stata avviata nell’estate del 2019, in una villa di terracotta nella periferia di Roma, dopodiché è proseguita nell’inverno successivo su una spiaggia abbandonata di un villaggio di pescatori vicino a Porto, in Portogallo, e ha preso corpo nel marzo 2020 durante una gita nella campagna francese, fino a maturare in una vecchia casa decadente, piena di mantelli e libri, ubicata nella Germania rurale. Attualmente, come a confermare un’era di turbolenza geografica, Rachel è tornata ad abitare nel Regno Unito, Thomas si trova tuttora in Germania e Daniel si è trasferito a New York, negli Stati Uniti.

Sono avvenuti tanti cambiamenti che non ci aspettavamo. Il disco è nato in Italia. Poi ci siamo incontrati in Portogallo, poi siamo andati in Francia… poi tutto è andato a pezzi nel mondo, per anni. Gran parte della composizione è antecedente ai lockdown, mentre i testi li ho sviluppati successivamente. Conserviamo in ogni caso dei bei ricordi del work in progress. Avevo spiegato a Daniel e Thomas che non sapevo se avrei voluto fare ancora musica, perché mi sentivo persa, eravamo un po’ in secca creativa. Essendo grandi amici, abbiamo semplicemente affittato uno studio senza alcuna pressione. Abbiamo scelto uno studio in un Paese caldo, dove mangiare e bere bene. Tutto all’insegna del minimalismo, anche nell’equipaggiamento. Io mi sono comprata un microfono nuovo. Ci siamo detti di fare della musica: se ci piaceva bene, altrimenti l’avremmo accantonata. Abbiamo cercato di tornare al motivo originario del perché facciamo musica assieme. Abbiamo passato una fase esistenzialista, diciamo, anche se a dir la verità io ne passo parecchie! Il risultato è diventato profetico: questi sentimenti sono stati amplificati dal periodo di pandemia, che nessuno avrebbe immaginato durasse così tanto e che ha avuto un forte impatto su tutti.

Dalle note stampa: Forse questo sarà il nostro ultimo disco, o forse sarà soltanto un nuovo inizio. Una dichiarazione che assume, in virtù di quanto detto sopra, una chiave di decifrazione cristallina. Proteggere ciò che si ritiene sacro, nel marasma generale, nel crollo di ogni certezza, per gli Esben And The Witch significa innanzitutto preservare la propria musica e l’entità della band. 

Sì, assolutamente. Il titolo dell’album può essere interpretato secondo varie accezioni, ma è anche un promemoria per noi tre, per rimanere uniti. Tutto ciò avveniva prima della pandemia. Dopo, con il ricorso obbligato al social writing, è diventato ancora più appropriato. Si riferisce alla gioia che si può provare quando trovi la tua vocazione e ti ci aggrappi. Questa vocazione preziosa può essere un ricordo, l’amore, una canzone, un’esperienza, una passione. Per me, è la musica. È un messaggio per me stessa, ma può esserlo anche per gli altri. Hold Sacred.