ALGIERS, Shook

Dopo un manifesto programmatico come il loro terzo album There Is No Year del 2020, in cui storicizzavano di fatto se stessi, esprimendosi al meglio in sound e vis sociopolitica, gli Algiers hanno confezionato il loro quarto, sempre su Matador, cambiando le carte in tavola, cioè virando dal punto di vista musicale verso un crossover post-90s e allargando la loro line-up a quattro a quella di una vera e propria crew, con il coinvolgimento di numerosi ospiti. Ospiti eterogenei che rispondono ai nomi di Big Rube (The Dungeon Family), Zack de la Rocha (Rage Against The Machine), billy woods, Backxwash, Samuel T. Herring (Future Islands), Jae Matthews (Boy Harsher), LaToya Kent (Mourning [A] BLKstar), Nadah El Shazly e altri ancora.

Franklin James Fisher e soci sono tornati a casa, ad Atlanta, reduci dallo sfinimento bidirezionale di tour e pandemia, e hanno reso universale il loro messaggio, trasformando una voce, o per meglio dire una visione, in una pluralità di lingue e occhi. Tutti allineati e tutti orientati verso la fine del mondo, in una post-apocalisse collettiva, quasi un’opera di ricostruzione in mezzo alle fiamme di un incendio che ha già raso al suolo quasi ogni cosa. Il post-punk souleggiante e filo-industrial di ieri amplia il campo a una miscela di punk, alt-rap, elettronica e field recording urban, ma anche a blues e cosmic jazz, scorie trip hop, dub e influenze arabe, intermezzi spoken e coralità gospel. Una miscela pompata al massimo, dunque come minimo potente, con tanti elementi efficaci individuabili dopo lo stordimento del primo impatto: riff incendiari, ombrose linee digitali, sample old school, dense parole di protesta.

Si parte proprio dall’aeroporto di Atlanta, con l’annuncio che apre “Everybody Shatter”, per imbarcarsi alla volta di un viaggio senza padroni: dalla dinamitarda rabbia funk metal di “Irreversible Damage” – No rehab for my jihad, lo slogan di de la Rocha – alla total blackness di “Bite Back” e al neo R&B sperimentale di “I Can’t Stand It!”. Un viaggio inevitabilmente strabordante, perché figlio del caos di questi giorni, fatto di diciassette tappe per quasi cinquantacinque minuti complessivi, ricchi di idee/ideali e rimandi sia all’arte sia alla cronaca, intrapreso persino come reazione a un periodo di crisi interna, che aveva portato a un passo dallo scioglimento della band. In tal senso assume ancora più valenza la chiamata alle armi che ha preservato la difesa del fortino-casa madre. Se il tempo è finito, il tempo per una scossa è adesso. L’importante è darla, e qui di corrente elettrica ce n’è a volontà.