ALEXANDRA SPENCE, A Necessary Softness

Alexandra Spence è sicuramente una di quelle musiciste che definiremmo poetesse, la sua azione si configura tra i campi dell’installazione, dell’improvvisazione e della composizione con dispositivi elettronici. Una poetessa del quotidiano che, più che creare, raccoglie e giustappone, associa ed osserva, costruendo narrazioni delicate, di pregevole sensibilità e a malapena svelate, in cui anche i gesti più forti sono accompagnati da un senso di gentilezza.

Questo filo che unisce le opere di Alexandra Spence passa anche per A Necessary Softness, ultima uscita discografica dell’artista australiana, edita ad aprile 2021 dall’etichetta di Lawrence English, Room 40.

Come suggerisce il titolo, la morbidezza nell’affrontare le dinamiche del quotidiano è necessaria, condizione questa che va oltre il ricercato o il voluto. Il necessario è qualcosa senza il quale questa narrazione semplicemente non è possibile. Morbido però non significa per forza accomodante o piacevole, al contrario può essere disturbante e scuotere molto più della violenza, penetrare a livello ipodermico e profondo, insinuarsi nei piccoli spazi vuoti come infiltrazioni di fluidi scorrevoli che erodono le fondamenta di strutture gigantesche, di dinamiche apparentemente ovvie, di aspettative scontate.

Queste operazioni antologiche del suono, fiori rari scelti tra migliaia di altri possibili, trasudano un senso di casualità, un affidarsi alle fenomenologie, come se la chiarezza di significato possa emergere solamente attraverso l’esperienza del caos, le minuscole interferenze, il contatto tattile con superfici imperfette. Sul sito di Alexandra Spence, nella sua biografia, si legge “she holds the belief that electricity might actually be magic”. Niente di più vero da riscontrare nella sua poetica, in cui si avverte chiaramente il gesto rituale, la psicomagia che parla all’inconscio nell’atto di miscelare sapientemente ingredienti e oggetti emananti, significanti e significati in questo potente calderone da cui distillare una pozione e imbottigliarla in un’ampolla opaca.

Ecco, se posso notare alcuni (pochi) difetti nel lavoro della Spence, questi sono tutti nello sviluppo tecnico di queste narrazioni. Movimenti panoramici un po’ troppo evidenti, qualche riverbero innecessario, un uso della voce un po’ indulgente e un parlato che si dirige verso territori ASMR con molta facilità. Elementi, questi, che ho trovato dapprima distrattivi e che hanno richiesto un grande sforzo personale nel superare una dimensione di ascolto tecnologico e mi hanno spinto a disimparare a riconoscere i processi di elaborazione del suono per abbandonarmi alla suggestione.

Confesso che è stato difficile, ma che una volta riuscito mi ha restituito molto. Nel continuare a chiedermi se non fosse stato possibile ottenere lo stesso risultato con dei trattamenti un po’ più raffinati, mi rendo dunque conto di come sia necessario mollare qualsiasi ormeggio logico/razionale per affrontare questo disco, di quanto sia necessaria questa morbidezza.