Ai margini dell’impero: Basilio Sulis, direttore artistico di “Ai Confini Tra Sardegna E Jazz”

Basilio Sulis è il vulcanico presidente dell’Associazione Culturale Punta Giara, che da 32 anni si occupa dell’organizzazione del miracoloso festival jazz di Sant’Anna Arresi. Miracoloso perché portare in un piccolo paese di una zona marginale di un’isola dell’Europa del Sud musicisti di livello mondiale ha dell’incredibile, eppure la cosa si ripete oramai da molti anni. Abbiamo fatto due chiacchiere con chi ha partorito, allevato e nutrito questo splendido, raro animale, che speriamo popoli ancora a lungo la fauna dei festival italiani, rispetto ai quali si pone senza dubbio come un’eccezione (difficile vedere altrove un festival così lungo e così trasversale) e come un’eccellenza (il livello mediamente è stato altissimo, e se scorriamo i nomi delle varie edizioni c’è francamente da restare allibiti per la qualità sempre molto, molto elevata), oltre che come un vero e proprio vettore di cultura. Una manifestazione che diffonde e propone, che spazia senza paura dai nomi storici ai giovani, senza preclusioni di alcun tipo. Un’utopia fatta carne. L’associazione produce anche dischi, nei giorni del festival è stato presentato il vinile del live dell’anno scorso proprio qui del Summit Quartet (Terry Ex, Hamid Drake, Mats Gustafsson, Ken Vandermark). Basilio ha tantissimo da raccontare ed  è torrenziale nelle risposte e spesso e volentieri apre parentesi, diciamo che risponde in modo jazz, ecco. Ho cercato di mantenere intatto il tono delle sue rullate e dei suoi stacchi, seguendo il suo beat pieno ed incalzante. 

Prova ad immaginare di spiegare questo festival a qualcuno che non ne abbia mai nemmeno sentito parlare.

Basilio Sulis: Ti descrivo gli elementi che l’hanno fatto nascere, ovverosia la combinazione di incontri casuali e la necessità di una piccola comunità di circa 2000 abitanti, ai margini dell’Impero, di fare sapere che esiste. L’ho fatto usando il linguaggio musicale anche perché in Sardegna il jazz negli anni Settanta si è ritagliato uno spazio non di poco conto con giornalisti e musicisti, e quindi lo strumento per comunicare con il mondo allora è diventato il jazz o la musica contemporanea che sia. Da questa vitalità inizia questa storia, quindi la pretesa o l’utopia era quella di fare un ragionamento di questo tipo: siamo una piccola comunità, vogliamo entrare in una grande comunità, vogliamo essere un festival piccolo ma internazionale, vogliamo che quello che facciamo si elevi sino al punto di interessare altri. Con questo approccio è iniziata questa storia ed ha scelto forme musicali del jazz abbastanza evolute che dovevano servire sia da grimaldello per rompere equilibri, rendite di posizione che nella cultura, nella politica, nella chiesa (ricordo omelie del prete contro il jazz 35 anni fa) si erano create anche in un paese piccolo come il nostro. Questo accompagnato dal fatto che all’epoca qui c’era un sindaco donna che aveva partorito un progetto di teatro, per cui è entrata una bella discussione in paese rompendo schemi consolidati. Abbiamo cominciato con Don Cherry nel 1985, la prima rassegna organica ha avuto gente come Hermeto Pascoal, Paul Motian, Ray Mantilla, 35 anni più giovane rispetto a quello che abbiamo visto in questi giorni. Siamo dunque entrati dritti a cercare di ragionare con la musica attraverso i fenomeni che ci circondavano, cercando di essere contemporanei. Io ho 70 anni, biologicamente sono una bestia sociale, qua hai un sacco di tempo per ricordarti che puoi pensare e quindi ogni tanto qualche ideuzza ti viene, da lì la scelta di tematizzare il festival ogni anno.

Questo è ciò che ha ispirato e ancora ispira il festival. Non ti nascondo che un’idea portante per l’anno prossimo già è uscita, lo spunto viene da un testo di McCartney con Stevie Wonder, ed allora bianco e nero, un’integrazione su sette ottave, qua ogni giorno sbarcano molti ragazzi che vivono un dramma e c’è lo sforzo perenne di fare comunità, ovviamente bianco e nero sono anche le tastiere, poi vedremo come organizzare questo che è al momento è solo un flash che ci è venuto.

Pezzi di futuro in questo festival secondo me ne abbiamo già intravisto, pur con tutte le difficoltà del caso, io vedrei ad esempio Tyshawn Sorey (apice indiscusso del festival per chi scrive, ndr) dirigere un’orchestra, speriamo di riuscire a farlo.

Il 26 settembre esce a New York una registrazione fatta qua di Roscoe Mitchell con Matthew Shipp, nonostante i problemi che viviamo l’associazione gode di una certa autorevolezza. Anche il fatto che sia conosciuta meno di quanto dovrebbe… pazienza, a fare scoop sono capaci tutti.

Come si è accesa la scintilla per la musica?

Guarda, ti ripeto, io ho 70 anni. Per noi la musica, forse più che adesso, la musica aveva pretese rivoluzionarie. Ci sembrava che con un giro di maniglia avremmo cambiato pure questo mondo, e che pure in centri lontani venivamo investiti in qualche maniera. Io ho iniziato presto a fare, dai Balletto Di Bronzo ai Rovescio Della Medaglia. Poi sono passato dai festival pop e sono entrato nel giro degli organizzatori, per uscirne presto per incompatibilità politica. Poi una provocazione di amici del passato ha provocato una reazione e quindi eccoci qua.

Un musicista che ti piacerebbe portare qui c’è o tutti i tuoi desideri sono stati esauditi?

L’ho portato e l’ho fatto scendere dal palco: Henry Threadgill, perché dentro la sua grandezza si nascondeva un uomo che non voleva camminare con i piedi per terra. Lui è un grande e si ricorderà come sono andate le cose, deve semplicemente mandare un segnale, nemmeno a me. Dovrebbe chiedere scusa al pubblico di quel giorno, nel qual caso noi lo attendiamo a braccia aperte. Non essendo noi organizzatori puri e non facendolo per motivi di carattere economico, siamo convinti che la dignità sia un valore, anche economico, un investimento (ci furono problemi seri con il management). Nel 1988 venne Dizzy Gillespie, del quale serbiamo un ricordo straordinario, una persona di grandissima umanità.

Tutta la parte della didattica è venuta a mancare perché sono mancati i contributi economici dall’alto, ma speriamo tornino presto perché vogliamo aprirci nuovamente ai giovani. Qui abbiamo fatto un progetto con sette ragazzi del luogo che hanno lavorato con un batterista. Noi facevamo molto anche nella trasmissione orale della musica popolare: abbiamo scritto  ad esempio partiture per launeddas (semplificando, la cornamusa sarda). Tutto questo con i nostri ritmi giocoforza lenti, perché io di mestiere porto piatti, quello faccio (Basilio ha un ristorante a Porto Pino, ndr) e questo mi rende molto più libero, fa di me una specie di bastardone e va bene così.

Sei stato in giro in gioventù ?

L’autostop funzionava all’epoca, andavo in giro ed era facilissimo, mi muovevo per sentire i miei beniamini ma sempre era forte questo bisogno di tornare per sentire i profumi e gli odori della mia terra, ho questo legame con l’isola, pur essendo meno isolano di tutti perché sono nato a Carbonia (anticamente Mussolinia), una città nata dal nulla nel 1936.

E i rapporti con l’esterno del vostro festival?

Avevamo un gemellaggio col festival di Clusone (è di questi giorni la notizia della chiusura dello storico festival, ndr) già nel 1989, siamo andati diverse volte alla Columbia University per collaborazioni pluriennali a Chicago, purtroppo però la difficoltà è avere relazioni costanti e non occasionali.

Se dovessi scegliere cinque dischi da portarti nella famosa isola?

Mi devi credere, da quando sono diventato presidente, sono diventato molto più ignorante di quanto non fossi prima; i dischi del passato non mi interessano, oggi sono costretto quasi sempre ad interessarmi di problemi importanti ma poco nobili, del lato burocratico diciamo. Prima di iniziare questa storia, la prima cosa che facevo era mettere su un disco. Ora vivo della mia formazione e della curiosità, sono una specie di bestia, uno che va un po’ ad intuito, vado ad alto rischio perché non sono molto affinato. Don Cherry, Anthony Braxton, per dire, siccome ne sono impregnato, artisti come loro non li nomino nemmeno perché ragionano con me, sono quelli che mi hanno fatto immaginare il futuro. Uno come Braxton noi lo abbiamo avuto più di una volta, Roscoe Mitchell e Threadgill fanno parte di me. Penso di fare un’offesa ad ognuno di loro se li ricordo nel passato.