SUBROSA, More Constant Than The Gods

Subrosa

Il precedente No Help For The Mighty Ones aveva dimostrato al pubblico doom più aperto e curioso come fosse possibile tentare di reinterpretare un genere senza stravolgerne le basi, tanto da riuscire a far digerire ben due violini in formazione anche ai più scettici tra coloro che vi si erano avvicinati. Non contenta, la band aveva brigato con Glyn Smyth per riportare sull’artwork l’incredibile storia di Tere Jo Duperrault. La partnership con Smyth prosegue anche oggi, con l’artista alle prese questa volta con il concetto di morte e con la sua rappresentazione femminile, come del resto al connubio tra morte e universo femminile si ispira anche uno dei brani di More Constant Than The Gods, quella “Cosey Mo” che prende a spunto la prostituta tratteggiata da Nick Cave nel libro “And The Ass Saw The Angel”, che viene uccisa dalla folla in un impeto di furia bigotta. L’apertura, con le voci (maschile e femminile) che duettano in un botta e risposta quasi sussurrato, lascia subito intendere come i Subrosa non si siano accontentati di ripetere il colpo, ma abbiano lavorato per cercare di arricchire ulteriormente la propria tavolozza di suoni, con la quale poi dipingere quadri ancora più ambiziosi e complessi. Da qui il ridotto numero di tracce a fronte di una lunghezza media maggiore (la sola apertura dura quasi quindici minuti).

Un altro aspetto che balza immediatamente all’occhio è una tendenza più forte all’introspezione e alla malinconia, quasi come se un velo di tristezza trattenuta ricoprisse la scrittura e ne permeasse l’andamento, il che dona maggiore profondità e rende i brani ancora più “simpatetici” con l’ascoltatore, in una sorta di catarsi collettiva. Sono proprio queste armonie, a tratti sconsolate, a volte addirittura epiche, a donare al nuovo Subrosa un che di poetico e avvincente, senza mai che si scada mai nel pacchiano, nel pretenzioso o – peggio – nell’utilizzo di qualche trucco da “circo del metal”, perché ancora una volta la band dimostra una classe e una puntigliosità nel comporre i propri brani ben superiori alla media del genere. Il tutto senza contare la personalità, che rende immediatamente riconoscibile la firma del gruppo anche dopo l’evoluzione degli ultimi due anni. Esempio di quanto appena esposto è la sequenza di note dissonanti che punteggiano “Affliction”, un esperimento dai contorni insoliti e a un primo impatto straniante, eppure capace di imprimersi in mente e catturare l’attenzione proprio grazie a questo incipit fuori dall’usuale. La chiusura, poi, è affidata alla melodia di “No Safe Harbor”, quasi un notturno: il già menzionato feeling malinconico tocca il suo apice e spinge alle estreme conseguenze quanto costruito lungo l’intero album, così il congedo diviene un vero e proprio commiato dai toni cinematografici, con l’effetto dissolvenza e la scritta fine in bella vista, neanche ci si trovasse davvero seduti davanti a uno schermo o si fosse intenti nella lettura di un libro.

Di certo non si tratta di un lavoro semplice o da utilizzare come sottofondo, piuttosto di uno di quelli da assaporare con calma, per fare in modo che le note tocchino le corde giuste e rivelino tutta la bellezza di More Constant Than The Gods. Ancora una volta la Profound Lore ci ha visto giusto.

Tracklist

01. The Usher
02. Ghosts Of A Dead Empire
03. Cosey Mo
04. Fat Of The Ram
05. Affliction
06. No Safe Harbor