Vieri Cervelli Montel: risvegli necessari

È una domenica pomeriggio, l’appuntamento per la chiacchierata con Vieri Cervelli Montel è per le 14, ma, come spesso (mi) accade, l’imprevisto dell’ultimo istante mi fa slittare di una decina di minuti l’incontro. Invio un messaggio a Vieri per scusarmi del ritardo, arrivo di corsa a casa con l’ansia addosso perché sapevo avesse una finestra molto stretta di disponibilità. Quando, però, mi siedo, attacco il registratore e scambiamo un paio di battute (che non verranno riportate) per sciogliere il ghiaccio, improvvisamente mi rilasso con la consapevolezza di avere difronte una persona dall’animo gentile e serafico e so già che sarà una bella e interessante chiacchierata tra “amici”.

Prima domanda, molto semplice: come stai?

Vieri Cervelli Montel: Per niente semplice. Sto bene, perché sono pieno di emozione, vivo nel senso vero del termine. Un momento che è difficile decifrare: ho lavorato per cinque anni a questo disco, subliminalmente per venticinque, perché ci sono intere zone della mia vita dentro. E ora all’improvviso esiste per tutto il mondo, a disposizione di tutti, sensazione molto bella e al contempo straniante.

Primo disco da solista per un’etichetta appena nata. Esordio nell’esordio. Ti mette ansia o ti dà energia?

Non mi mette ansia, mi diverte molto, nel senso puro del termine. Mi fa piacere non essere l’unico esordiente nel mio esordio. Mi onora, perché credo molto nel progetto Tanca di Jacopo (Incani, ndr), lo ritengo prezioso. Non ho ansia, sono curioso di vedere come si evolveranno le cose. Per l’intanto tutti abbiamo fatto ciò che sentivamo di fare.

Questo non è un disco scritto durante la pandemia, visto che ci hai messo cinque anni. A che punto eri quando è iniziata?

Quando è iniziato questo delirio i brani erano già registrati. Il disco è stato registrato praticamente dal vivo, suonando tutti insieme. Ma ha visto una lunghissima fase di produzione dopo le registrazioni, durante la quale le tracce sono state rielaborate, portate altrove, a volte distrutte. Dunque la pandemia ha visto queste lunghe fasi di rimaneggiamento, anche un po’ asfissianti. Poi il tutto è stato mixato tre volte, quasi ripartendo da zero ogni volta.

C’è stato un lavoro molto maniacale, insomma. Sei tu che sei così oppure sei stato influenzato dalla nota precisione di Jacopo?

La prima che hai detto. Sono stato comunque contento di trovare questa somiglianza con Jacopo. Per me qualsiasi micro-scelta, timbrica, musicale, testuale, ha un significato preciso. Avevo idee estremamente precise per ogni singolo passaggio del disco.

Hai suonato in band, con gli /handlogic ad esempio. Per te questa è una rinascita in altra forma o mostrare di più ciò che già c’era nella band?

Ogni mio progetto ha contribuito alla mia crescita e mi ha permesso di capire che certe cose dovevano essere diverse. Negli /handlogic mettevo molto del mio, ma ero al servizio di una visione comune, che però ha cessato presto di essere comune… Questa è la prima volta che non ci sono stati compromessi.

Hai sviluppato nel corso degli anni una personalità che alla fine hai trovato con questo disco.

Credo di sì. Paradossalmente è successa una cosa interessante da questo punto di vista. Io avevo moltissima voglia di lavorare da solo dopo gli /handlogic, pensando a qualcosa di esclusivamente elettronico, realizzato con le macchine, poi ho scelto dei compagni di viaggio e mi sono lasciato contaminare da loro, Iosonouncane compreso. Però ero io la guida.

Il disco parla di morte, di vita, di ricordi. Temi che in Italia si utilizzano poco, se non in ambito – dico io – un po’ più “gangsta trap”, con tiro da fighi. Lo fai con un piglio da cantautore, anche se la produzione poi è di altro tipo. Metti a nudo fragilità umane. Hai sentito il bisogno di dirlo perché era una necessità o è stato un atto di coraggio?

“Necessità” è una parola centrale in questo disco. Di tutto ho sentito un bisogno forte e incontrollabile. Il concept è andato definendosi quasi da solo. Sentivo il bisogno di toccare certi temi, certi ricordi, certi sogni, certe suggestioni, elaborando il tutto attraverso determinati “eventi” musicali. Mi sono reso conto pian piano che era diventato un concept. Non ci vedo coraggio in tutta onestà: ho imposto agli altri un mio sfogo personale. Infatti è anche affascinante accorgersi di come possa interessare a qualcuno qualcosa che per me è talmente intimo da essere autoreferenziale.

La domanda più difficile: c’è un brano che preferisci del disco?

Personalmente, almeno in questa fase (poi cambia), mi sento profondamente legato ad “Alba”.

Tornando al rapporto con Jacopo: lui si espone molto poco. Con te lo ha fatto, anche dal punto di vista manageriale. Che relazione avete?

Una storia articolata. All’inizio ci scrivevamo. Gli mandavo quello che facevo. Lui ha covato l’idea di produrre il disco per anni, poi mi ha parlato di questo suo progetto “Tanca Records”. Per me la risposta era quasi scontata. Siamo diventati amici. Lui è una sorta di fratello maggiore. Molto riservato, dà molto spazio alla musica e poco alla comunicazione della musica. Ammiro molto questo approccio, infatti non ci saranno fuochi d’artificio intorno alla doppia nascita di etichetta e album.

Sei del 1995. La tua generazione come sta dal punto di vista musicale?

La mia è una generazione a cavallo tra infinite epoche, paradossalmente. Si affaccia quasi con timidezza agli approcci contemporanei alla musica. Mi sembra che sia legata al Novecento, intendo quello della musica leggera non della musica colta ovviamente, è attaccata al suonato, alla chitarra. Ha da sempre intimamente a che fare con la tecnologia, per comunicare e per ascoltare musica, però – forse mi sbaglio, forse sono io – è legata al gesto, al suonare dal vivo.

Il futuro?

Continuare a scrivere musica, parole, lavorare anche a progetti non solo musicali. Momento strano. Sono in mezzo a un mare di accadimenti, e (non citare Leopardi! Non citare Leopardi!)… me lo godo.