SVARTE GREINER, Knive e Apart

Dose doppia di Erik Skodvin, questo mese: la sua etichetta Miasmah cura infatti la riedizione dell’esordio a nome Svarte Greiner, originariamente pubblicato da Type nel 2006, e contemporaneamente tira fuori un nuovo mini-album dalla curiosa genesi.

Svarte Greiner in norvegese significa “rami neri” e direi che è difficile trovare un moniker che, come quello scelto da Skodvin, si attagli così bene alla sostanza musicale da lui trattata: Knive è una passeggiata notturna in una foresta spettrale, in cui ogni suono e ogni strepito, di provenienza spesso incerta, sono presagio di sinistre presenze. Come in tutti i lavori di Svarte Greiner i rumori, quelli di fondo ma anche quelli più banali e insignificanti, acquistano dignità musicale e, giustapposti agli strumenti veri e propri, imbastiscono con essi un dialogo che dà forma ad ambienti ben poco rassicuranti. Oltre al corredo irrinunciabile di field recording (gracidare di corvi, passi, pioggia e chissà che altro…) che, come scrivevo, la fa da padrone, fra i motivi dominanti troviamo lo sfregamento di corde, elemento ricorrente nelle realizzazioni del norvegese, e il violoncello che con cadenza regolare detta il passo, realizzando una sorta di intelaiatura ritmica dei brani. Complemento suggestivo, si fa largo nella coltre di dissonanze e ronzii elettrostatici la voce diafana, anch’essa per molti versi raggelante, di Kristin Evensen Giaever. Fra le macchie di suono stese da Skodvin si staglia maestoso, quasi una presenza familiare in mezzo a tanto smarrimento, l’organo in “The Black Dress”, e saltano subito all’orecchio i ritmi incespicati, abbozzo artatamente maldestro di tribalismo, di “The Dining Table”.

Se fin dall’esordio Erik/Svarte Greiner ha dimostrato una spiccata capacità nel materializzare scenari, è altresì evidente la propensione, come nell’ultimo Apart, ad assorbire le suggestioni del contesto stesso in cui si opera e restituirle all’ascoltatore. Il mini-album nasce dalla voglia di mettere a frutto un’esperienza surreale, non propriamente piacevole, almeno a quanto sembra di leggere fra le righe della press release. Nell’autunno del 2015 Skodvin viene ospitato in un complesso industriale abbandonato nei pressi di Berna: qui gli vengono dati un violoncello, un sacco a pelo e il libero accesso ai locali della fatiscente struttura. Nel sotterraneo, fra pareti scarabocchiate e bizzarre sculture in acciaio, avvengono le registrazioni: Erik si rende presto conto dell’impossibilità di portare a termine un lavoro pulito, per via degli scricchiolii e degli strani e inquietanti rumori dell’ambiente circostante e così decide di fare della sporcizia sonora un elemento caratterizzante. In Apart si tende ad esplorare le possibilità espressive del violoncello, ricorrendo a un uso peculiare dell’archetto, che palleggia, stride, vibra stoccate sulle corde; lo strumento diventa materia bruta sul quale Skodvin porta avanti i suoi esperimenti con il piglio del geniale dilettante. Suspense, incertezza e ansietà traspaiono nettamente e sono fra le note dominanti di un disco che, confrontato con l’esordio appena ristampato, conferma la coerenza – quasi noiosa per quanto sia ferrea – del linguaggio musicale di quest’uomo.