SCARCITY, Aveilut

A volte la musica riesce a rispecchiare candidamente il quotidiano, in un gioco di riflessi che amplifica a dismisura il reale, quasi fosse una cassa di risonanza. È il caso di Aveilut, prima creatura del progetto Scarcity del poli-strumentista Brendon Randall-Myers, che da Brooklyn ci confeziona un debutto che è prima di tutto umano. Una retrospettiva sugli ultimi anni di pandemia, fatti di lutti e instabilità. Uno sguardo volto all’indietro che è anche fautore di un’occhiata verso quel futuro prossimo di cui non si scorge ancora l’orizzonte, cosi ammorbato dentro al sordido miasma dell’incertezza da risultare per ora ancora impenetrabile. Questo lungo monologo black metal scosta le tende del dolore irrompendo nella cruda realtà della morte, con l’obiettivo di dare forma e sostanza al concetto di perdita. Il tutto con un appeal quasi cinematografico, un gusto da colonna sonora che si sparge su tutti i capitoli di Aveilut, immergendo l’ascoltatore in un piccolo inferno in bianco e nero, in cui l’inevitabilità del Destino risuona universale. I cinque frammenti che compongono l’album, nominati solamente con dei numeri romani crescenti, scorrono come un’unica grande composizione omogenea, il cui primo ingrediente è la massiva ripetitività dei suoi ritmi. Un tribalismo gorgogliante che fluttua tra i riff catatonici di chitarra e batteria (la prima traccia ne è emblema perfetto), un suono che avanza inesorabile puntellato dai testi urlati dal cantante Doug Moore (Weeping Sores, Glorious Depravity), che dalla sua esperienza personale durante il COVID (ha vissuto a fianco di una casa funeraria a NY durante il lockdown) riesce a far sgorgare una prova che si allinea ottimamente alle tematiche e le strutture prettamente atmospheric black metal di questo lp.

Le incursioni vocali colpiscono le immagini vivide costruite dalla strumentazione, graffiando l’aria con un lamento gutturale e dissonante altamente evocativo. Uno stile in cui si ritrova qualche caratteristica di George Clarke dei Deafheaven, e proprio come nel caso della band di San Francisco anche per il debutto di Scarcity si può apprezzare un sapiente dosaggio di blast beat e muri sonori impenetrabili. Le tracce continuano costantemente a ribollire fino al duetto finale con gli schiaffoni drone di “IV” e l’inquietante “V”, in cui voce e strumenti assumono le sembianze di una moltitudine, il canto del cigno di una marea di anime irrequiete. Un ottimo metodo per esorcizzare l’horror vacui verso il domani prendendo di petto il nostro passato recente collettivo, un esercizio di empatia che lascia il segno