Paolo Tarsi ha studiato algebra delle lampade. La nostra intervista.

Paolo Tarsi, oltre che compositore e giornalista musicale, è arrivato a misurarsi con una pubblicazione più corposa: prima o poi succede a chi scrive molto e ha voglia di mettere il suo materiale in ordine. “L’Algebra delle lampade” (Ventura Edizioni) è una raccolta di recensioni e interviste pubblicate in passato su siti web come Il Giornale Della Musica, Artribune e Alphabeta 2. Il sottotitolo però ci fa subito cambiare e ampliare prospettiva, “musica colta da culture incolte”, che può certamente significare molte cose e dare il necessario valore aggiunto a un libro che si lascia leggere con facilità; in particolare nella sezione dedicata ai dischi, l’Atto I, si apprezza una prosa concisa e ben calibrata, mai prolissa o affetta da inutili protagonismi. Il percorso intrapreso tiene naturalmente conto delle cosiddette musiche di ricerca del Novecento, da Tōru Takemitsu a Fausto Romitelli, John Cage e Salvatore Sciarrino e via elencando, avallato pure dalle interviste (incluse nell’Atto II) a Laraaji, Ron Geesin, Roger Eno, Blaine L. Reininger dei Tuxedomoon, Eivind Aarset, Alexei Moon Casselle dei Kill The Vultures. Insomma spesso si devia (volutamente) e si fanno convergere musicisti anche parecchio diversi tra loro, e in fondo il giochetto è voluto, dato che non esiste la storia della musica ma le storie, e questo Tarsi – da buon accademico amante però del rock – lo sa bene e ce lo racconta senza far troppo rumore, passando per un paio di fondamentali concetti-base: la passione e lo studio.

Paolo, raccontami di come nasce “L’Algebra delle lampade” e perché hai chiamato così questo tuo primo libro. Ricordiamo che dietro c’è tutto un discorso “numerico” e la copertina a tema dell’artista Luca Domeneghetti.

Paolo Tarsi: In effetti il titolo può trovare diverse spiegazioni. Oltre all’aspetto “numerico” su cui si basa la struttura dell’opera, il titolo si riferisce a una recensione del 1966 del critico Roger Judrin che sulle pagine della “Nouvelle Revue Française” così scriveva a proposito di Opera Aperta di Umberto Eco: «che algebra pedante per accendere delle lampade senza moggio!». Naturalmente il mio punto di vista è diametralmente opposto a quello di Judrin, ça va sans dire

Mi dici un po’ dei tuoi inizi come critico musicale? Che poi si incrociano con quelli di compositore e musicista.

È stato un periodo molto importante in cui ho avuto l’occasione di approfondire una serie di conoscenze senza le quali oggi sarei un musicista decisamente più convenzionale. Coincide con la fine del mio percorso di studi in Conservatorio, un momento in cui avevo bisogno di riemergere da un mondo che esiste solo sui banchi accademici. Fuori da quel tempio la musica è un’altra cosa, a prescindere dal genere.

Col tempo l’attività critica è diminuita, se non ho capito male. Il tuo primo amore rimane la musica suonata, no?

Ho sempre nutrito un rispetto profondo per la figura del critico musicale, verso chi ci permette di scoprire e addentrarci, veicolandoli, all’interno di mondi affascinanti altrimenti preclusi. Naturalmente è un cammino in cui si possono commettere errori di valutazione, la cosa più importante però è cercare di essere degli onesti messaggeri con le antenne ben posizionate. Leggo quindi sempre con attenzione le pagine culturali dei quotidiani, possono fornirmi spunti preziosi per ciò che rimane il mio obiettivo più profondo: esprimermi con i suoni. Suonata dal vivo o creata in studio usando le tecniche di registrazione come uno strumento espanso, creare musica è sempre stata e continua ad esser il fulcro nodale verso cui si concentra tutta la mia attenzione.

Qual è stato il vero processo di selezione degli scritti? A leggere il libro si direbbe tu ti sia volutamente concentrato sulle musiche più di ricerca o sbaglio?

Ho cercato di distribuire lo spazio a disposizione tra autori imprescindibili e altri meno noti al grande pubblico, o altri ancora che solo in tempi più recenti hanno iniziato a ricevere la giusta attenzione. È questo il caso di figure quali Tōru Takemitsu e Fausto Romitelli.

Si capisce però che non disprezzi affatto il rock, anzi…

Assolutamente. Il rock è stato e continua ad essere grande fonte di ispirazione. In modo particolare amo l’afflato psichedelico degli anni compresi tra il 1967 e il 1969, mentre mi sono decisamente allontanato, salvo dovute eccezioni, dal progressive più sfarzoso di cui mi sono ampiamente nutrito durante l’adolescenza. La mia visione minimal di oggi è decisamente più in linea con l’universo cosmico dei Tangerine Dream e dei principali protagonisti della scena del cosiddetto “Krautrock”.

Hai già avuto delle recensioni e delle impressioni positive sul libro? Conti di scriverne un altro prima o poi? Quali sono i tuoi modelli di scrittura musicale?

Il libro è stato accolto molto positivamente e sta ricevendo numerose e lusinghiere recensioni. Suscita inoltre attenzione e interesse anche durante le varie presentazioni in giro per l’Italia. Tengo molto a questa pubblicazione ma non so se avrà un seguito, lasciamo che gli eventi facciano il loro corso, anche perché preferisco di gran lunga leggere che scrivere. E tra le penne che apprezzo maggiormente sicuramente quelle di critici e musicologi quali Enzo Restagno, Carlo Boccadoro, Paul Griffiths e Alex Ross, solo per fare qualche nome. Amo tantissimo anche le biografie dei compositori e musicisti che prediligo, da Philip Glass a quella dell’ex Kraftwerk Wolfgang Flür.

Stai preparando un nuovo album. Ci puoi già anticipare qualcosa?

Ruoterà attorno al concetto di pieno/vuoto, e se Furniture Music for New Primitives trovava le proprie radici spirituali nel lavoro di musicisti e compositori come Terry Riley o l’ex Velvet Underground John Cale, il nuovo album sarà diviso in due sezioni, una ambient e un’altra decisamente elettronica. Anche se mancano ancora gli ultimi ritocchi, posso già dire che si tratta di un lavoro di cui sono molto soddisfatto in cui appariranno, per la prima volta, anche delle canzoni.

Nel disco saranno presenti musicisti provenienti da formazioni come Kraftwerk, Tangerine Dream, Neu!, Henry Cow, King Crimson, Afterhours, National Health, producer come Alek Hidell, Valerio Cosi, Fauve! Gegen A Rhino, Robin “Scanner” Rimbaud, Andrea Tich, così come collaboratori di David Bowie, Radiohead, Soft Machine, Brian Eno, Bryan Ferry e Faust. Sarà una coproduzione tra la mia label Anitya Records, che emetterà i primi vagiti proprio in quest’occasione, e l’etichetta Acanto di Andrea Felli, che si prenderà cura dei suoni nel suo Farmhouse Studio di Rimini.

Ma prima ancora ci sarà una mostra dal titolo “Bad Consumers” che si terrà dal 12 al 29 luglio a Genova, presso la Sala Dogana di Palazzo Ducale, in cui presenteremo l’artwork e i video del nuovo lavoro. Alcuni degli artisti coinvolti in questo progetto sono Luca Domeneghetti, Roberto Rossini, Emiliano Zucchini, Emil Schult (Kraftwerk) e Ahmed Emad Eldin, autore della cover di “The Endless River” dei Pink Floyd.