Nel chiarore di Renato Fiorito

Renato Fiorito – foto di Tommaso-Vitiello

Renato Fiorito si muove a tutto campo in ambito musicale, dato che compone, registra, fa dischi solisti e con altri (il sassofonista Antonio Raia, ormai sono quasi parenti) e infine realizza installazioni sonore, una delle quali (vediamo più avanti) è stata messa in mostra dal prestigioso Le Guess Who? di Utrecht. È un field recordist, ma come altri trasforma radicalmente i suoni che raccoglie. Per restare in Italia e per dare un’idea di che cosa sto parlando, lo posso mettere vicino a Giulio Aldinucci, Enrico Coniglio, Francesco Giannico, per certi versi ad Alberto Boccardi, per certi altri ad Adriano Zanni, infine, considerato il suo atteggiamento “etnografico”, non è difficile accostare il suo lavoro a quello dell’etichetta Canti Magnetici o a quello recente di Mai Mai Mai. Mi viene da pensare, ad esempio, a un album come Sacro Sangue, che prende le mosse da un rito calabrese di autoflagellazione (terribile come quelli delle isole Filippine) che non conoscevo, un miscuglio di paganesimo, credenza popolare e cristianesimo che torna spesso in altre forme nella cultura italiana, perché alla fin fine se Renato fosse uno storico, scriverebbe un libro tipo “Il formaggio e i vermi”.

Lustra è il suo tentativo di restituirci la luce di Napoli in una chiave molto particolare: durante l’ascolto, oltre sicuramente a provare la sensazione di un infinito biancore, grazie a melodie appartenenti alla tradizione (tradizione viva, ci tiene a sottolineare lui) e registrazioni sul campo raccolte in anni e anni mi sembra di ricordare un viaggio che non ho mai fatto in quella città (in cui sono finito solo per lavoro, senza mai gustarmela), come se mi ci avessero portato da piccolo, per cui non tutto si vede chiaro e a fuoco, ma arriva come un sogno e anche per questo sembra bello e magico. “Il metodo Basinski”, mi vien da scrivere. Magari sto semplificando ancora, però così sono sicuro di essermi fatto capire da più di tre persone. Dall’intervista che segue si capirà poi anche che sto molto sovra-interpretando, motivo per cui ho preferito parlare con lui di tutte queste mie impressioni. È stato molto onesto e trasparente.

Nella presentazione del tuo nuovo disco si dice che “lustra” è “una antica parola napoletana”. Vorrei sapere quale è la sfumatura “napoletana” di “lustra” che sfugge agli altri italiani.

Renato Fiorito: Lustra in napoletano significa “illumina”, e non ha uno specifico valore mistico o religioso. È un termine usato comunemente almeno fino agli anni Trenta del Novecento, anche dai grandi autori come Salvatore Di Giacomo e Raffaele Viviani. Mentre ad oggi viene mantenuto il suo sinonimo “lucèa” (seppure non così tanto nel quotidiano), questo termine è sparito anche dal nostro ricordo. Ci si inciampa solo mentre si legge un testo antico, e non si fatica a coglierne il senso. Per me è davvero la parola che meglio descrive il colore di Napoli, città costruita con pietre vulcaniche e quindi tendenzialmente grigia, ma colorata da questa luce fortissima che avvolge tutto.

Sulla copertina di Lustra c’è un ex voto. “3694” è forse un riferimento a San Gennaro e alla sua mitra (ho googlato). Sacro Sangue, tuo disco del 2017, si rifà al rito pasquale di autoflagellazione degli abitanti di Verbicaro (Cosenza). Dimmi perché ri-racconti storie di cristianesimo popolare.

Onestamente non vivo queste cose come se fosse una rielaborazione del mondo cristiano/popolare, ma penso che l’ambiente e la cultura da cui provengo mi influenzino in maniera importante. Forse sono a tal punto vicino alla cultura popolare e alla tradizione che inevitabilmente compaiono nella musica che faccio. Più in generale credo sia difficile parlare del Sud Italia evitando tutto questo, ne siamo talmente tanto immersi che non ci facciamo più caso. È come per le edicole votive, Napoli ne è piena ma non ci si presta poi molta attenzione.

Sempre a proposito di cultura popolare: fammi capire perché – a modo tuo – hai portato nel 2023 “Mmiez’ ‘o grano”. Hildur Guðnadóttir, qualche anno prima di vincere l’Oscar, mi ha detto che la tradizione è una conversazione tra persone che non si sono mai incontrate.

Lavorando a questo disco ho cercato in tutti i modi di restituire fedelmente la mia visione e la mia idea di cosa siano Napoli e le sue sonorità in questo momento, tentando di non scadere mai nell’effetto pulcinellesco, tanto gradito a chi ha una visione superficiale di questa città. Nel fare ciò mi era inevitabile “scontrarmi” con la canzone napoletana, che noi viviamo come un qualcosa di vivo e non di tradizionale. Ancora oggi si scrivono canzoni nello stile classico e tutti i cantanti napoletani nella loro carriera si devono confrontare con questo elemento, che è fondante della nostra cultura. È stato entusiasmante spingermi al confronto con ciò, e “Mmiez’ ‘o Ggrano” mi girava talmente tanto intorno nel periodo in cui ho cominciato a fare la prima stesura dell’album che non potevo scegliere un’altra canzone. In questo ho trovato poi la complicità dei Suonno D’Ajere, trio costituito da voce (Irene Scarpato), chitarra (Gianmarco Libeccio) e mandolino (Marcello Smigliante Gentile), formazione che amo e che ha nella sua propria costituzione l’obbiettivo di portare in giro la canzone classica quanto più fedelmente possibile.
Comunque davvero molto bello il concetto espresso da Guðnadóttir, difficile darle torto!

A proposito di conversazioni, questa volta tra persone che si sono incontrate. Cosa mi dici del tuo dialogo con Antonio Raia, ospite anche in Lustra (in “3694”)?

Ho condiviso una buona parte del mio percorso artistico con Antonio, che è diventato soprattutto un carissimo amico. Abbiamo cominciato a collaborare per le registrazioni del suo primo album in sax solo, ci siamo trovati bene a suonare e lavorare insieme e da lì è nato un tour, poi un altro, poi naturalmente siamo approdati al comporre musiche per film (“Lievito” di cyop&kaf, “La carovana bianca” di Artemide Alfieri e Angelo Cretella) e un disco a quattro mani, Thin Reactions. Di Antonio amo la sua enorme capacità espressiva con i suoi sax e mi è sembrato naturale chiedergli di partecipare al disco.

Sto pensando ancora a “Mmiez’ ‘o grano” e pure a una traccia come “Controluce”. Negli ultimi dieci-vent’anni molti in campo ambient hanno sgranato, sfocato le melodie, lasciandole percepire più che altro come se fossero lontane, come fossero il ricordo di una melodia. Ti senti vicino a qualcuno in questo?

La lista è davvero lunga, e mi è difficile farti solo alcuni nomi. Gli ascolti fondamentali sono sicuramente Lawrence English, Rafael Anton Irisarri, Lucy Railton, i vari progetti di Stephen O’Malley, Tomoko Sauvage. Potrei proseguire davvero per parecchio! Sono delle fonti di ispirazione importanti, e tendo ad ascoltare determinati lavori mentre sto componendo così da lasciarmi influenzare dalle loro modalità di destrutturare e velare.

Non so infine assolutamente come e quando hai cominciato col field recording, un aspetto del tuo sound che ancora non abbiamo davvero toccato. Mi piacerebbe che ci raccontassi qualcosa a riguardo.

Mentre studiavo all’università, lessi un articolo sul lavoro di Jana Winderen che mi affascinò tantissimo! Ho cominciato così a fare lunghe passeggiate con un piccolo registratore ambientale, fermandomi e raccogliendo paesaggi sonori. Più lo facevo e più mi ci immergevo, fino al punto da rendermi conto che il suono così come lo percepivo doveva essere l’elemento di base dei miei lavori. Sono passati molti anni, continuo a fare queste passeggiate sempre con un registratore con me ed ho una library molto vasta da cui attingo ogni volta che mi siedo davanti al computer e inizio a comporre. Ogni tanto lavoro con le finestre aperte e mi immagino che la mia musica possa fondersi con l’ambiente intorno, qualunque esso sia; se mi suona bene, consolido ciò che sto creando.

Come sei finito al Le Guess Who?

Parte del mio lavoro è realizzare performance site-specific, in cui fondo l’acustica dello spazio ospitante con impianti audio particolari. Nella primavera del 2022 ho realizzato “Bastimento”, il mio più grande e vasto progetto site-specific finora. Si è fatto nel Cilento ed è stato promosso dalla fondazione MDMCrea. Era un progetto davvero grande in cui ho anche tramutato una porzione di un paese (Camerota) in una enorme cassa armonica. Per realizzare tutto questo ho coinvolto varie figure professionali che mi fossero di aiuto nell’attuazione di ciò che avevo in mente. Tra queste l’architetto Chiara Mazzarella, il cui supporto è stato utilissimo nel definire al meglio i vari atti del progetto. Finita quell’esperienza abbiamo voluto continuare a lavorare insieme, e da lei è venuta la proposta di fare qualcosa per la Rietveld-Schröderhuis, un sito patrimonio dell’UNESCO che si trova a Utrecht e che è un edificio davvero importante per la storia dell’architettura (di cui sono un grande appassionato). Ho formulato così “Straight / Wandering”, una installazione site specific in cui ho proiettato nello spazio antistante, attraverso il suono, i moduli della facciata dell’edificio e ripreso nella composizione gli elementi costitutivi del De Stijl teorizzati da van Doesburg e Mondrian.
Abbiamo contattato il responsabile del sito, si è appassionato all’idea ed ha coinvolto il festival. Da lì una serie di scambi di mail e poi siamo partiti per realizzare l’installazione in loco.

Porterai in giro Lustra? Se sì, ci sarà una controparte visiva?

Assolutamente sì! Sto lavorando con Tommaso Vitiello – autore non solo della copertina del disco e del videoclip di “Controluce”, ma dell’intero progetto visivo ad esso legato – per un live set in cui ci siano immagini, colori e soprattutto luci. Non aggiungo altro, stiamo nel pieno della costruzione.