Il mio Roadburn, con calma

Questa pagine non son quelle di una ipotetica CNN del metal e io non sono una giornalista. Faccio altro durante tutto il giorno, un altro che mi prende molto tempo, ma ciò non toglie che alla fine mi faccia piacere raccontare a qualcuno, sintonizzato su una lunghezza d’onda comune, quello che ascolto. Il report/diario che segue è forse più un regalo che faccio a me stessa, tanto quanto lo è stata la vacanza che mi sono presa per vedere ancora una volta il Roadburn Festival. Spero comunque di darvi qualche spunto di riflessione ad hype finito e di far salire la scimmia a qualcuno che non è mai stato a Tilburg. Se ci leggete, comunque, è difficile che quella scimmia non sia già sulla vostra spalla e non vi stia parlando dei Candlemass, degli Yob o di qualche gruppo di rockettari psichedelici persi nelle spire dell’LSD …
Quindi ecco qui il mio racconto “retrospettivo” di come ho vissuto l’esperienza Roadburn quest’anno. Le foto sono, in gran parte, un contributo da parte dell’amico Adriano Di Gaspero.

Giovedì 10 aprile 2014

Corrections House

Eccoci qui, a Tilburg, nel Brabante, Olanda centro-meridionale, proprio in centro città, primo pomeriggio, davanti al comprensorio multi-sala dello 013 – Poppodium, che ospita i concerti in contemporanea del festival. Siamo tutti muniti di braccialetto per l’accesso e di libretto “guida” del Roadburn, che per ora è liscio perfetto, ma presto sarà consumato dall’uso. Il cielo è poco nuvoloso, con frequenti sprazzi di sole, c’è una brezza piacevole e il clima è decisamente mite. I tavolini fuori dai bistrot nelle vie del centro, qui vicino, sono invitanti e sono ancora pieni di gente vestita di nero e con i capelli lunghi che si attarda per un ultimo drink. Noi, impavidi, invece che continuare a sonnecchiare stravaccati sulle poltroncine dei caffè o andare per giardini a vedere la fioritura dei bulbi, ci accingiamo ad affrontare questa prima giornata dell’evento, distribuendoci tra le varie sale del comprensorio: Main Stage, Green Room, Het Patronaat e Stage01, più il pub Cul de Sac.

Quest’anno, a grandi linee, il programma è particolarmente pesante, e noi “andiamo giù duro” sin da subito! Come? Beh, se sono i Locrian ad aprire per primi le danze, bisogna metter subito mano ai tappi per le orecchie. E questa band di Chicago, con un look da “bravi ragazzi”, satura in fretta l’Het Patronaat (che, inevitabilmente, visto cos’è, prende un tiro da Chiesa sconsacrata) con un flusso impressionante di suoni laceranti e tormentati. Sul retro dello stage rimane fissa un’immagine assurdamente depressiva: un parcheggio immerso nella nebbia fitta, vuoto eccetto che per un carrello della spesa, solitario, la cui sagoma traspare nella foschia come uno spettro sconsolato (è la copertina di Return To Annihilation). La colonna sonora di questa desolazione è un ibrido allucinante di blackened sludge e post-metal, soffocante e doloroso. Anche il sintetizzatore contribuisce spesso al rumore apocalittico oppure viene usato per interrompere l’incedere funereo delle litanie feroci e delle urla laceranti con degli stacchetti dinamici quasi “disco-industrial”. Nelle altre sale stanno iniziando gli altri concerti, col solito, inevitabile problema delle sovrapposizioni assassine, ma non è facile uscire dalle sabbie mobili corrosive, anzi da quel parcheggio spettrale dei Locrian…

Visto che si è iniziato pesante, continuo sullo stesso registro andando a “rinfrescarmi” con uno scampolo di sludge paludoso dei Sourvein, le cui ballate giustamente marce e alcooliche – ma temperate dalla melodia ammiccante del blues – alzano la temperatura nella grande sala del Main Stage. Li avevo visti in precedenza al Roadburn e, nonostante della vecchia line-up sia rimasto solamente il corpulento T-Roy (voce), i Sourvein sono una garanzia, niente sorprese negative. Una scappata veloce alla Green Room, piena, regala un po’ di bel retro-blues rock firmato dai norvegesi Brutus, che ormai sono al secondo album, dalla copertina coloratissima e psichedelica. Gli Hull, confinati nel buco della sala minuscola dello Stage 01, ex-Batcave, sono purtroppo inavvicinabili, e quindi torno all’Het Patronaat, dove si stanno preparando i 40 Watt Sun, trio formato da due ex-Warning, vecchia band britannica ben nota ai cultori del doom cupo e malinconico. Di nuovo lo sfondo dello stage viene usato per raccontare quello che il trio sta suonando e, in particolare, ciò che Patrick Walker sta cantando in un set semi-acustico dominato dalla disperazione. Le ballate “slowcore” dei 40 Watt Sun sono dolorose e cariche di sorda malinconia. Il filmato che scorre alle loro spalle, sgranato e in bianco e nero, parla di campi pieni di sterpaglie, di fattorie cadenti e stalle con muri vecchi e scrostati dove le mucche si spostano nella fanghiglia, mostra l’interno di una casa modesta, in cui la luce esterna penetra a fatica attraverso tendine da quattro soldi e vetri bagnati da una pioggia incessante. Ci si aspetta di vedere l’ombra di qualcuno che s’impicca, ma in realtà non accade nulla del genere. È semplicemente vita che scorre, in bianco e nero e con i piedi nel guano, e con melodie dolenti all’inverosimile che fanno da perfetta colonna sonora al decadimento.

Basta, ci vuole un po’ di aria e, già che c’è, un po’ di sole olandese, che è piacevole. Perciò a un certo punto scendo nella stradina davanti al grosso teatro dello 013, dove c’è una delle novità di quest’anno. Tutta la via è occupata dagli stand dedicati al merchandise di tutte le band e di vari rivenditori di dischi ed etichette. Non ci sarà più molto spazio per bivaccare come negli anni precedenti, ma l’assetto da mercatino, fino a notte, con le lucine gialle accese e il bel tempo che rimarrà per tutti i quattro giorni, è proprio carino e sicuramente invitante. Ed è anche, immagino, gratificante e di grande aiuto per i gruppi, che non essendo più compressi nella sala dell’anno scorso, dove ci si muoveva a fatica, forse riescono a valorizzare meglio il loro materiale. Un po’ di aria ci vuole anche perché le prime ore al Roadburn sono un po’ spaesanti. Si è presi dalla frenesia a causa delle sovrapposizioni e della conseguenta ansia di vedere il più possibile di tutto, stressandosi. Va detto anche che, sebbene si abbia a disposizione lo schema del running order da qualche giorno, a volte è solo lì, sul posto, che si riesce davvero a decidere cosa fare, dove andare, su cosa concentrarsi, anche in funzione, ad esempio, di quanta gente migra o ingolfa l’accesso alle sale oppure di come sono i concerti, di come ci si sente… Infatti ogni tanto al Roadburn succede di avere gli schemi sballati dalla scoperta di gruppi mai visti prima, dal piacere di godersi l’esibizione completa delle band preferite e il resto “pace amen”, oppure (ogni tanto succede) per alcune aspettative deluse. O, dopo alcune ore, anche solo per spossatezza.

Per non lasciarmi andare proprio subito allo shopping sfrenato (vedo una marea di dischi che vorrei…), vado “a tirarmi un po’ su di morale” andando all’esterno della Green Room per scoprire, in ritardo, come suonano i francesi Regarde Les Hommes Tomber. Ammazza, tosti! Sento solo l’ultimo brano, carico, sludge sferzante e caustico, misto a black e post-metal (ci sono gli Otargos di mezzo…), veramente d’impatto! Quindi, per quanto mi riguarda, ecco qui la prima delle belle sorprese, o scoperte, del Roadburn di quest’anno. Quando i francesi finiscono c’è la migrazione in massa al Main Stage, sul quale si esibirà una band che è diventata di grido nello scorso anno, i finlandesi Beastmilk, capitanati dal cantante degli Hexvessel, ma dediti a un post-punk ispirato – per capirci – ai Joy Division. Li avevo già visti al Live Evil festival l’autunno scorso a Londra, dove, in effetti, non c’entravano molto con la parata di gruppi black, death, trash e speed eletti da Fenriz per il suo blog “Band of the Week”. Ma il Roadburn festival è eclettico, e questo è uno dei suoi lati belli e stimolanti. Quindi ci si può aspettare di tutto. E infatti la gente intasa il Main Stage per seguire i brani dinamici dei Beastmilk. Dopo la tanta pesantezza che ha avviato il festival dovrei dire che questa band porta una ventata di freschezza, e forse è anche così (la folla si sta divertendo). Però quel che sento, pur piacevole, mi sembra un’imitazione un po’ troppo “pop”, e senza gran spessore, degli originali. Ma si sa, i gusti sono gusti.

Visto che, tra l’altro, mi piace la “roba pesante”, preferisco tornare ad arrampicarmi sulle scale ripide dell’Het Patronaat per aspettare i Samothrace, americani pesantoni di Seattle. Ufficialmente (cioè su Metal Archives) la band è taggata come “stoner-doom”, ma sullo stage i quattro inanellano suite mastodontiche, ruvidissime ma anche molto atmosferiche. Il groove dello stoner, sempre che ce ne sia ancora, è polverizzato dal rombo dei riff distorti che dal palco rotolano sulla massa di gente come una lingua di ghiacciaio che cola lentissima a valle sbriciolando qualunque cosa. Tutto ciò accade alla faccia della presenza del “gentil sesso” con la chitarrista Renata Castagna, minuta sì, ma…

A un certo punto è ora di muoversi e tornare al Main Stage per i Napalm Death. Li ho già visti un po’ di volte e quindi in teoria potrei rinunciarci per andare a vedere qualcosa d’altro, ad esempio una parte del concerto, sicuramente divertente, di quei pazzerelloni di skate-punk metallari californiani dei The Shrine. Però sono incuriosita (come del resto la massa di gente che riempie il salone del Main Stage) dall’annuncio che per l’occasione i Napalm Death suoneranno “lenti”! La scaletta, infatti, include alcuni dei loro brani meno frenetici. Si può facilmente immaginare l’onda d’urto del concerto, pesantissimo per le orecchie ed angosciante per gli occhi grazie al filmato, con grafiche in bianco e nero, in linea con i temi apocalittici cari alla band. I Napalm Death, però, non sono abituati a questi ritmi pachidermici, e lo ammette anche il cantante, Mark “Barney” Greenway. Perciò, ovviamente, a un certo punto sentono il bisogno di tornare a suonare à la “Napalm Death”. Ed è, sinceramente, solo allora che io mi comincio a divertire, perché, per dirla tutta, a me loro piacciono quando suonano aggressivo e veloce come sanno fare. Inserire un brano lento tra una mitragliata e l’altra ha senso, mentre l’ora di Napalm Death “sludgecore” non mi prende molto. Non è per loro, che sono un mito che non tramonta, ma perché ci sono band che sono nate, e ci riescono meglio, a suonare lente e marce. Come, ad esempio, i Graves At Sea, che chiuderanno la mia prima giornata del festival.

Dopo i Napalm Death siamo in molti a tornare a Het Patronaat con la curiosità per i Nothing, americani, altra band “fenomeno”, dedita ad uno stile tra shoegaze, alternative e post-rock. Parlo da profana. Sarà che la mia idea di shoegaze si è formata ascoltando Alcest & friends, ma resto perplessa nell’ascoltare questa versione emo-pop dello shoegaze, incredibilmente distribuita da una label grossa come la Relapse. Sarà qualcosa che non va nel mio gusto, non so. Tanto vale farsi strada, a ritroso, tra la gente che riempie il salone, non perdere altro tempo, e cercare di catturare un po’ di sano sludge-drone-doom/death tritaossa degli australiani Whitehorse, barba e panza portate orgogliosamente, dieci anni di legnate praticamente auto-prodotte. Tra l’altro, il weekend dopo il Roadburn gli australiani sono calati in Italia, a Pescara, per castigare i tanti che si sono accalcati sotto il palco del Tube Cult Fest. Questa sì che è roba buona! Dopo lo split polverizzante con gli ottimi ragazzotti californiani di Negative Standard, c’è attesa per l’album nuovo dei Whitehorse, Raised Into Darkness, in uscita proprio nei giorni del Roadburn.

Poi è il turno dei Corrections House, collaborazione sperimentale tra i “fantastici quattro” Mike IX Williams degli Eyehategod, Scott Kelly dei Neurosis, Bruce Lamont degli Yakuza e Sanford Parker dei Minsk. Il grande teatro scuro del Main Stage, stra-pieno, fa da sfondo ideale al quartetto in divisa “marziale”, con il suo logo inquietante sia sulle camicie nere, sia sui drappi scuri che coprono i sintetizzatori di Sanford Parker e il leggio dove Mike appoggia il suo breviario funesto. L’unica luce proviene dallo sfavillare dorato del sax baritono di Bruce Lamont, lucido, gigantesco, maneggiato però con leggerezza. Questo è il primo di due concerti (il secondo domani) in cui i quattro interpretano brani tratti dal loro album di debutto Last City Zero, uscito a fine ottobre 2013, ma annunciato mesi prima dai video potenti del singolo Hoax The System / Grin With A Purpose. I Corrections House suonano secondo uno stile a cavallo tra drone, doom metal e industrial. Non ci sono né batteria né basso: a rimpiazzarli ci pensano le elaborazioni elettroniche di Sanford e il bramito del sax di Bruce, mentre Mike declama i suoi versi senza speranza oppure si alterna ai suoi compagni in canti laceranti. Da discussioni tra gente che ne sapeva più di me sul genere, apprendo il fatto che questo progetto non inventa nulla di nuovo, poiché ricalca a grandi linee gruppi storici, come i Test Dept., sia per l’approccio alla musica che sia la performance. Ma, specialmente se uno non conosce in modo approfondito l’argomento, la performance dei Corrections House è senz’altro di grande impatto.

Giusto per continuare con la pesantezza immane, il running order di questo primo giorno prevede i Conan, che tornano trionfanti al Roadburn e che suonano all’Het Patronaat, però inavvicinabile per la calca. Come pure è inavvicinabile la saletta dello Stage 01, dove stanno finendo di suonare i Goatess, bella band di sano doom svedese dove milita il bravo Chritus, voce e carisma dei Lord Vicar. Sono le nove e mezza di sera, e allora si mangia qualcosa catturando un po’ di bel stoner blues rock sanguigno degli americani ASG, prima di tornare al Main Stage per i Crowbar e una dose corposa del loro sludge metal del profondo Sud, classico e solido, fatto di brani storici e nuovi (dall’album in uscita Simmetry In Black). Mi godo metà del lungo concerto di questi veterani barbuti e poi vado alla Green Room per assistere a quello che sarà una delle migliori performance di questa mia giornata (ed anche del festival, sempre per me). Ci sono gli Anciients, quattro canadesi che suonano una specie di prog death metal eclettico che Giovanni, un amico chitarrista, ha giustamente sintetizzato come un ibrido “Opeth + Baroness”. Ma le definizioni più o meno precise non rendono il brio con cui questa band sa suonare. I due chitarristi cantano, in voce pulita e in growl, ma allo stesso tempo tirano fuori riff a ritmo continuo costruendo brani dinamici, complessi ma contagiosi, autenticamente belli. Alla fine del concerto entusiasmante siamo in un po’ evidentemente ad aver scoperto solo questa sera questa band eccellente. Andiamo in processione a visitare il banchetto degli Anciients nella zona del merchandise e a comprare l’album di debutto, Heart Of Oak, di cui sono rimasti solo pochi cd. La chiusura della prima giornata del festival propone una selezione in parallelo tra band variamente pesanti e per tutti i gusti, dal drone psichedelico iper-tossico dei Bong allo stoner-doom muscoloso dei Freedom Hawk, passando per il black-sludge-punk della giovane band tedesca Mantar e la musica marcissima degli americani Graves At Sea. Scelgo i Graves At Sea, i quali, nella sala del Het Patronaat, da mezzanotte all’una ci succhiano le ultime energie, ma ci regalano un concerto strepitoso. La qualità eccelsa del suono permette di apprezzare (più che altro esserne intossicati e invischiati) il canto strozzato e alcoolico di Nathan Misterek (già nei Laudanum), sostenuto dai riff da palude ribollente sfoderati dal chitarrista Nick Phit, che sfoggia una barba rigogliosa. La birra è scorsa a fiumi durante tutto il giorno al festival, ma anche il jet-lag fa la sua parte nel rendere lo sludge dei Graves At Sea torrido e devastante, come scopro chiacchierando con il batterista qualche giorno dopo, quando i Graves At Sea vengono a suonare a Milano.

E poi si va a nanna, contenti.

Venerdì 11 aprile 2014

Tyranny

Nuovamente in pista, pronti ad affrontare il secondo giorno del Roadburn Festival 2014, il cui programma è in buona parte gestito da un ospite illustre, Mikael Åkerfeldt degli Opeth. È nota la passione di Åkerfeldt per il progressive rock, per questo, sin da quando si è saputo del suo coinvolgimento nell’organizzazione del festival, c’è stata parecchia curiosità esi sono create aspettative. Mikael, come si dice, ha fatto le cose in grande, riuscendo a coinvolgere, tra l’altro, una serie di band niente meno che leggendarie: Magma, Goblin, Comus e gruppi prog storici scandinavi (Änglagård e Trettioariga Kriget). La giornata, in ogni caso, offre anche parecchie occasioni di ascoltare psichedelia variamente coniugata, grazie ad Harsh Toke, Sula Bassana, Papir, Elephant9. C’è anche una sana dose di doom epico comme-il-faut niente meno che con i Candlemass e anche l’ottima band cileno-svedese Procession. Quindi la giornata è tendenzialmente meno lugubre rispetto a ieri, ma anche oggi c’è modo di “farsi del male” con The Body, Tyranny, Obliteration o Terra Tenebrosa.

Per curiosità vado a vedere l’apertura delle ostilità, in affido a un gruppo di ragazze svedesi, Promise And The Monster, le quali, nonostante il nome, fanno del folk acustico certamente affascinante, ma che mi lascia un po’ perplessa. Non è una scelta strana, dato l’eclettismo del Roadburn. Però, siccome non è il mio pane e non riesco ad apprezzare, abbandono presto la Green Room e vado a raggiungere il mio vero obiettivo. Non i Magma nel Main Stage, bensì i Tyranny nel suggestivo Het Patronaat. Non mi è capitato spesso di assistere a un concerto di vero funeral doom finlandese, e non posso perdere l’occasione. I Tyranny includono musicisti che troviamo anche in altre band finlandesi di grande calibro (Wormphlegm, Profetus, Horna, Khert-Neter, Corpsessed, Cardinal Folly…) e dieci anni dopo il debutto potentissimo, Tides Of Awakening, tornano in piena attività con un nuovo disco che dovrebbe uscire sull’etichetta americana Dark Descent Records. L’atmosfera non può essere più occulta di così: luci viola e rosso sangue, tuniche e mantelli scuri e l’incedere lentissimo delle note e delle parole sussurrate dalla voce cupa del cantante, che suona non il basso ma un contrabbasso. Non è la prima volta che vedo/sento l’uso del contrabbasso in una band di metal estremo. Infatti negli Hooded Priest, ottima band di heavy doom belga/olandese con basi solide nel black metal, non c’è bassista ma contrabbassista. Il contrabbasso dei Tyranny è però, ed incredibilmente, modernissimo nel design, così essenziale da fungere quasi anche da scettro colonnare high-tech, che il cantante ogni tanto picchia a terra per rimarcare la solennità del ritmo insieme alla batteria. Se ci si addentra in questa musica misticheggiante e sepolcrale, pachidermica nel suo incedere, il suo effetto ipnotico ha il potere di annullare il tempo e trasportarci nel profondo di una cripta o di una notte nordica rischiarata dai bagliori dell’aurora boreale. Così, quando l’esperienza Tyranny finisce e i musicisti tornano dietro lo stage, l’incantesimo si rompe, o dovrei dire l’incubo si dissolve. Noi riprendiamo a respirare con la velocità normale e ci accorgiamo che in realtà è pieno giorno e fuori c’è il sole!

Migro nel salone stra-colmo del Main Stage dove stanno suonando già da un po’ i Magma. Questi musicisti francesi, “istituzioni” del prog, stanno coinvolgendo l’audience con lunghi brani convoluti, dove il loro intricato jamming strumentale si intreccia con quello del frontman e delle due cantanti. Quella che mi capita di intercettare entrando nel teatro è una musica solare ma complessa, progressive rock ibridato da influenze tropicaliste e arricchito da voci jazz e swing, il tutto in un flusso ininterrotto. La performance della band dev’essere intensa anche dal punto di vista fisico, però i musicisti e i cantanti sembrano instancabili!

Dopo i Tyranny e la coda del concerto dei Magma, vado ad ascoltare, o meglio, a rilassarmi con un altro po’ di jamming, quello degli Harsh Toke insieme a Lenny Kaye. L’incontro tra i californiani e il chitarrista di Patti Smith avviene sul palco della Green Room. Ma al Roadburn Lenny Kaye è presente anche in veste di originario organizzatore della compilation di culto Nuggets, che negli anni Sessanta/Settanta scoperchiò il calderone del rock underground americano. In questa prima sessione di jamming degli Harsh Toke, ovviamente, i musicisti vanno a pescare e rielaborare brani storici del garage rock. Che dire, non è musica “fondamentale” o particolarmente innovativa, ma non c’è niente da fare, a me il modo di suonare degli Harsh Toke (e pure anche delle varie band che orbitano loro attorno nella scena di San Diego) piace un sacco e risulta particolarmente balsamico. Quindi succede che, invece di dieci minuti, sto lì impalata ad ascoltarli più di mezzora senza accorgermi, e la conseguenza è che non c’è più tempo per andare a vedere i The Body, pesantissimi, all’Het Patronaat. O meglio, ci sarebbe tempo, ma sono curiosa di vedere qualcosa anche dell’altra “chicca”, l’altra “rarità” offerta dalla scaletta prog ideata da Mr. Åkerfeldt per questo secondo giorno del festival. Nel Main Stage, infatti, suonano i Comus dalla brughiera profonda inglese: ancora prog, stavolta acustico e a forte impronta folk. I Comus erano già stati “recuperati” dalla Rise Above Records qualche tempo fa, cominciando con la riedizione del primo album in studio della band (First Utterance, 1971). Sono e sembrano anziani e fragili sul grande palco, finché non cominciano a suonare e cantare le loro ballate che odorano di muschio bagnato, affascinanti e sinistre come le fiabe orrorifiche di Yeats. Mi fanno riaffiorare ricordi e sensazioni di tanto tempo fa, di vecchie cassette dei Pentangle e di qualche concerto di John Renbourn, a cui mi capitò di assistere secoli prima di oggi. Però, dopo alcuni brani del lungo concerto dei Comus, sento il bisogno di un po’ di aria e di ricarica di caffeina per essere pronta ad affrontare con l’attenzione che richiede il clou della giornata di oggi, ossia il concerto dei Goblin, che sarà lungo, dalle 19:30 fino alle 21:00. Dopo il caffè, uno spuntino veloce e due chiacchiere all’aria mite serale davanti agli stand del merchandise dei vari gruppi, c’è ancora un po’ di tempo per una breve arrampicata all’Het Patronaat per sentire qualcosa della seconda esibizione dei Corrections House. I quattro sono perfettamente inseriti nella “ambience” occulta del salone, dove il loro nero dominante combatte con la luce che filtra da fuori e che si colora passando attraverso i vetri istoriati. Anche oggi i ritmi dei Corrections House sono marziali ed alienanti, ma i quattro riescono a sorprendere il pubblico tirando fuori dal cappello magico perfino una cover di Neil Young, che in questo contesto risulta ancora più struggente.

Scappo, perché voglio poter assistere all’intero concerto dei Goblin (o meglio dei Claudio Simonetti’s Goblin) e da sotto il palco. Non li ho mai visti, anche se non molto tempo fa erano venuti a suonare ad un festival prog a Novara. La formazione comprende musicisti dei Daemonia e vede Claudio Simonetti alle tastiere e ai sintetizzatori, Federico Amorosi alla chitarra, Bruno Previtali al basso e Titta Tani alla batteria. Mentre sullo schermo passano in loop sequenze di spezzoni dai vari film a cui i vari brani si riferiscono (“Profondo Rosso”, “Suspiria”…), il gruppo suona in modo fenomenale. L’ora e mezza del concerto passa troppo veloce e l’entusiasmo del popolo del Roadburn, nel salone pieno all’inverosimile del Main Stage, è incontenibile. Evidentemente i musicisti non se lo aspettavano, perché fa quasi tenerezza accorgersi come loro stessi siano quasi stupiti del fatto di vedere orde di metallaroni “abbestia” innamorati del loro stile funky-hard-prog inconfondibile. Ma forse Claudio Simonetti e soci non sanno che i roadburniani, come tantissimi altri metallari, hanno gusti eclettici. Lo stato di grazia alla fine del concerto è tale che si potrebbe anche andare a casa! Ovviamente, però, c’è ancora tanta “carne succulenta” al fuoco nel programma speciale di oggi. Ad esempio, uscendo dal salone del Main Stage si passa vicino alla Green Room dove stanno suonando i Trettioariga Kriget, gruppo di riferimento della scena prog svedese ed europea. Quindi è inevitabile fermarsi per ascoltare almeno qualcosa di questa band storica invitata da Mr. Åkerfeldt e per fare, di nuovo, un salto indietro nel tempo grazie al loro stile e suono settantiani, protagonista l’organo Hammond.

A causa delle inevitabili sovrapposizioni assassine, mi sono persa i Procession, bella band cileno-svedese che non sbaglia un colpo e il cui doom epico, d’impatto sin dalle primissime uscite, è stato in grado di annullare le distanze e di darle visibilità internazionale più che meritata. Ma c’è un altro carico di doom epico in arrivo. Infatti sul palco del Main Stage i tecnici stanno preparando tutto per il concertone dei Candlemass, nei quali – per il live – è coinvolto alle tastiere anche Per Wiberg, ex-Opeth e attivo in Spiritual Beggars e Kamchatka. Ho un po’ di curiosità anche per il cantante nuovo, Mats Levén, che dal 2012 ha sostituito il grande Rob Lowe (Solitude Aeternus) dopo sei anni. I Candlemass interpreteranno l’intero Ancient Dreams in occasione del venticinquesimo anniversario della sua uscita. Avevo già visto queste istituzioni al Roadburn, quando avevano interpretato Epicus Doomicus Metallicus, coinvolgendo anche il cantante originale di quel disco, Johan Längquist. Era stato un bel concerto. E stavolta, che dire, i “ragazzi” sono in forma! Il doom che si riversa sul pubblico che riempie il grande teatro è vibrante nella sua epicità. L’unica cosa che mi lascia perplessa qui è  proprio la voce di Levén, già membro del gruppo heavy doom Krux di Leif Eidling e, come Candlemass, coinvolto nella più recente uscita della band, ossia lo split con gli Entombed del 2013. “Perplessa” è una parola esagerata. Intendiamoci, ha una gran bella voce, molto da heavy-power metal, molto Iron Maiden, perfino nel look, con i lunghi riccioli ricadenti e i pantaloni attillatissimi. Non per niente ha militato in gruppi come Therion, Firewind e ha suonato con Yngwie J. Malmsteen… Quindi il concerto è potente, e certifica che c’è da aspettarsi ancora grandi cose da questi guru del doom. Però devo dire che il top, per quanto mi riguarda, si è raggiunto quando è stato coinvolto come “guest “ Alan “Nemtheanga” Averill, cantante nei Primordial e pure nella nuova band doom Dread Sovereign (ospitata al festival l’anno scorso). Averill interpreta a modo suo la ballata “Incarnation Of Evil”, riuscendo, con la sua voce grezza, ad infondere alla melodia epica un’impronta funerea e maligna, davvero doom “senza se e senza ma”. Altra magia di questo festival: durante il concerto mi giro e chi ti trovo a due passi a fianco, da una parte e dall’altra, che ascoltano e commentano? Il gruppetto degli Opeth a destra e Mikael Stanne dei Dark Tranquillity a sinistra! Nonostante i vicini illustri, mi perdo l’ultima parte del concerto dei Candlemass per andare a Het Patronaat per cercare di ascoltare almeno la coda del concerto di Sula Bassana, anche per diluire il senso di oppressione del doom con un po’ di spacerock psichedelico targato Electric Moon & friends. Quando arrivo su nel salone colgo l’acme sonoro di una lunga suite, dove gli effetti delle chitarre, i sintetizzatori e la batteria a mille stanno creando un vortice frenetico, da nucleosintesi delle stelle. Grandi! Dopo un po’, uscita dal vortice e da Het Patronaat, provo a vedere se si riesce a sentire qualcosa degli Obliteration, che suonano nella Green Room. Gli Obliteration, norvegesi kolbotniani D.O.C., carne da Live Evil Festival, al Roadburn? Cosa ci fa qui una delle band di death metal tra le più “punishing” della scena attuale? Ebbene sì, ci sta, ed anche bene, e non sarà l’unica a rappresentare generi di metal estremo di solito infrequenti per Roadburn. Forse gli organizzatori si sono fatti conquistare dall’ultimo album, Black Death Horizon, che in più momenti ha adottato ritmi ed atmosfere doom per rendere ancora più soffocanti le loro ballate infernali. La scelta di far suonare band dure come questa è premiata dalla forte presenza di pubblico, che rende la Green Room irraggiungibile anche se stiamo parlando di qualcuno che suona sovrapposto ai Candlemass. Quindi solo verso la fine del concerto ci si riesce ad infilare nella sala per farsi scardinare i timpani da questi giovani norvegesi. Li ho già visti tre volte, dovrei esserci quasi abituata (!) però, ad ascoltarli, di nuovo mi viene da dire “ammazza, che legnate!”.

Si sono fatte le undici e un quarto di sera, sono stanca morta. Sarei curiosa di sentire i danesi Papir, con la loro psichedelia “gentile”, nella saletta asfittica dello Stage01, ma non ce la posso fare. Cerco un posto dove accasciarmi sui gradini della parte alta del Main Stage, perché voglio resistere per il concerto degli Opeth. Li ho già visti varie volte, e in teoria potrei “mollare” e andare a dormire oppure “sacrificarli” per andare a vedere le altre band che suonano in contemporanea, ossia Terra Tenebrosa ed Elephant9. Questi ultimi in particolare mi incuriosirebbero, “roba” interessante per quando mi tornano eventuali attacchi di “voglie” psych. Solo che gli Opeth per me sono un’istituzione e anche “da ricaduta”: se ci sono, non posso non vederli, nonostante questo comporti sorbirsi le battute stupide e la megalomania insopportabile di Mikael Åkerfeldt! Almeno qui al Roadburn non può intrattenere il pubblico con i suoi soliti discorsetti su Eros Ramazzotti, che fa puntualmente quando viene a suonare in Italia. Ad ogni modo, quando smette di parlare e inizia tutti a suonare, basta, è la meraviglia della natura che si schiude! Certo, per chi apprezza…

A concerti finiti, c’è chi resta a fare quattro salti col dj set post-festival e c’è chi va a nanna, distrutto… io, la seconda che ho detto…

Sabato 12 aprile 2014

Tribulation

Il terzo giorno del festival non è da meno degli altri quanto a offerta di roba succulenta.

Per quanto mi riguarda, la giornata comincia con la devastazione totale per mano di una band resuscitata qualche tempo fa dopo un gap di una decina di anni. La resurrezione, in questo caso, è andata benissimo. Tutti noi che riempiamo il Main Stage nel primo pomeriggio abbiamo ancora le cicatrici causate dallo sludge metal nero pece, caustico e marcio che i Noothgrush hanno forgiato sin dagli anni Novanta. Noothgrush, “la risposta della Bay Area ai Corrupted”. Della formazione storica ci sono il bassista Gary Niederhoff, il chitarrista Russ Kent e e la batterista Chiyo Nukaga. Però il nuovo acquisto, ossia il cantante attuale, Dino Sommese, giovane e dai tratti un po’ orientali, è da palati sopraffini, visto che fino a poco tempo fa si divideva tra Asunder, Ghoul e Dystopia. Quindi i nuovi Noothgrush sono ancora e sempre più una macchina per uccidere. Davanti allo sfondo, sul quale scorrono immagini lugubri in linea con le tematiche apocalittiche e anti-militariste della band, il gruppo interpreta con la dovuta passione violenta e rabbia le vecchie ballate urticanti, ma ci regala anche un brano nuovo, già uscito come singolo. Che dire? L’esibizione è perfetta nella sua essenza torcibudella, una delle migliori del festival per me, e non solo per me. È quindi automatico che, appena dopo la fine del concerto, il banchetto dei Noothgrush nella zona del merchandise sia assediato dai fan (me inclusa) che comprano tutto! La fila per acquistare la roba dei Noothgrush toglie tempo a una fuga verso la Green Room per vedere almeno qualcosa dei Monster Truck, canadesi dell’Ontario e con un nome che promette palate di riff grassi. Peccato! Ma più tardi ci sarà un’altra occasione di farsi un ricostituente di groove per controbilanciare il veleno e il pessimismo dell’apertura.

La curiosità mi porta a salire le scale dell’Het Patronaat, che è pieno di gente che ascolta i Circle, esponenti della cosiddetta “New Wave of Finnish Heavy Metal” (NWOFHM), in effetti band fortemente ispirata dai Loop, ma che suona un affascinante ibrido di kraut-psichedelia, art-rock, heavy metal, avant-garde, folk, ambient, fusion… Non sto lì molto tempo, giusto due o tre brani, ma è abbastanza per apprezzare la carica di questi finlandesi e della loro musica fresca, veloce e perfino tagliente. Senz’altro un gruppo da approfondire.

Non resto molto perché voglio tornare al Main Stage. Sono curiosa di assistere allo show dei Windhand, una band che finalmente vedo dopo averla seguita sin dal suo inizio un po’ di anni fa (mi aveva contattato il chitarrista, ero stata tra i primi a scrivere del loro primo demo e ad acquistare, orgogliosamente, la loro maglietta!). Li vedrò di nuovo la settimana dopo a Milano, in un contesto più “raccolto”, più underground e dedito a metal pesante e tossico (ossia la serata dell’Armata delle Tenebre pre-pasquale, “preview” del SoloMacello Festival). Però il Main Stage al Roadburn, con i suoi spazi e la sua acustica perfetta, è come un tempio. Il grande salone, stra-colmo, viene presto saturato dalle ballate sulfuree dei Windhand, degli Electric Wizard strappati dalle brughiere del Dorset e trapiantati nelle paludi del profondo Sud degli Stati Uniti! Nella band è entrato al basso Parker Chandler, che conosciamo già come bassista e vocalist dei Cough. Nulla di strano, i due gruppi sono legati da un lungo rapporto di amicizia e dalla stessa origine (Richmond, Virginia). Nonostante pienamente lanciata nella carriera, confermata dal successo – direi planetario – del nuovo album Soma, sullo stage la band sembra affetta da un po’ di rigidità o, verosimilmente, timidezza. Specialmente Cynthia Cottrell, dalla voce vellutata e maliarda, è molto statica e rende forse un po’ meno, a livello di pathos, di quanto renderà poi la settimana dopo a Milano. Ma come dar torto ai Windhand? Non penso di poter immaginare cosa sia a livello emozionale per un gruppo come loro – e per tanti altri musicisti underground – l’esperienza Roadburn!

Ad ogni modo ad un certo punto lascio il salone per non mancare completamente il concerto dei Gozu. Ah, i Gozu… anche da vedere sono grandiosi! Quattro ragazzotti con il look campagnolo del Midwest (anche se sono di Boston), vestiti con camicione a quadri e tuta da lavoro o jeans, bretelle, barbone e/o ciuffi che si agitano alle mitragliate di riff senza tregua. Mi piacevano su disco, ma dal vivo fanno sbavare! Il loro hard stoner rock è esplosivo, anche se la loro musica è tutto meno che da sempliciotti, poiché l’ossatura dei brani è solida ed articolata. Questi ragazzotti sanno suonare da dio e si divertono e vogliono divertire con la freschezza, l’immediatezza e la contagiosità dei loro brani. La Green Room fino alla fine resta stra-piena di gente che ha l’espressione paciosa di chi avrebbe voglia di trovarsi sull’aia davanti alla fattoria dei Gozu (esiste? Magari sì!), a riascoltarli con tanto di birra ghiacciata e una bella salsiccia ai ferri e con la luce dorata del tramonto estivo che fa scintillare le Harley parcheggiate lì vicino. Finiti i Gozu, una corsa veloce all’Het Patronaat va bene per ascoltare almeno due-tre brani di ottimo hard rock sudista degli Scorpion Child, visto che me li sono persi quando sono passati a Milano, e giusto per mantenere viva la sensazione di immaginarsi allegramente un po’ “biker”. Anche perché tanto, dopo, ci penseranno gli Yob, con la loro pesantezza polverizzante, a farti ricordare che è tempo di dooooom… Gli Yob, rappresentanti orgogliosi della fucina doom-sludge di Portland (Oregon), ritornano infatti puntualmente al Roadburn, come la peste nel Trecento. E, come in precedenza, sono generosi quanto a performance, perché suoneranno anche domani, durante l’Afterburner. Quindi per oggi mi accontento di assistere solo a una parte del loro concerto, che prevede l’esecuzione per intero di The Great Cessation (2009). Per l’ennesima volta mi chiedo come facciano tre soli musicisti a produrre cotanto muro di suono. Passo quindi alla Green Room per gli Obelyskkh, ottima band doom tedesca che ha avuto un inizio segnato da un po’ di sfortuna e da problemi ed inconvenienti che purtroppo a volte possono sorgere nell’interazione tra etichette e artisti (e non solo quando questi sono giovani, come ci aveva spiegato un po’ di tempo fa il buon vecchio Mike IX Williams nella sua intervista). I bavaresi hanno davvero penato per vedere l’uscita del loro album di debutto, Mount Nysa, nel 2011, anche se nei fan hanno trovato sin dall’inizio una solida base di supporto, almeno affettivo. Poi in fretta è uscito il secondo album, il potente White Lightnin’. E quindi il nuovo, terzo disco (Hymn To Pan) e la partecipazione al festival sono certo una bella e meritata soddisfazione. I cinguettii degli uccellini nell’intro che apre il concerto possono sembrare rassicuranti, ma “per tranquillizzarsi” basta osservare la grossa patch dei Nunslaughter sulla giacca del bassista (magrolino, con lunga treccia bionda e viso angelico), l’aspetto da “junkie” del chitarrista con barba e berretto gli atteggiamenti truci o le follie del batterista, che ad un certo punto si denuda. Tutto questo, però, non deve distogliere da quello che conta, ossia la proposta musicale e, quindi, un concerto condotto con un tiro da gente che sa suonare. È bello energico e sfaccettato il doom degli Obelyskkh, che preferiscono costruire le loro ballate tramite scorribande tra heavy doom, psichedelia, sludge putrido e un pizzico di sperimentazione, insomma riff solidi a raffica piuttosto che uso ed abuso di dilatazioni ipnotiche a base di feedback e drone. In pratica, i brani sono pesanti e, probabilmente, lunghi, ma così dinamici che non ce ne accorgiamo più di tanto, perché l’attenzione non cala mai e il pubblico, numeroso, è calorosissimo. E alla fine il batterista, rivestitosi, ringrazia stendendosi a mo’ di Maja Desnuda al bordo del palco per scherzare con chi è davanti! Chi l’ha detto che i musicisti doom sono tutti immusoniti?!

Così, dopo gli scherzi dei “doomsteracci” tedeschi, ci si può arrampicare a cuor leggero per le scale ripide dell’Het Patronaat per andare a farsi bastonare un po’ da un’altra delle band “cattive” invitate la Roadburn 2014. I Tribulation, figure eminenti del death metal svedese, ma con uno stile personale, particolarmente in evidenza nell’ultimo album del 2013, The Formulas Of Death. I ragazzi fanno calare una luce livida nel salone con il loro sound assassino ed ammaliante, in cui il death metal vecchia scuola fa da base a contaminazioni black metal, progressive, punk ruvido, gothic e post-punk. Insomma, sono in linea con le scelte eclettiche del festival. Aggressione ed ambiguità sono perfettamente incarnate dal chitarrista Jonathan Hultén, vampiro effeminato ossuto, frenetico e dagli occhi magnetici come quelli di un cobra che sta per colpire. È impossibile staccare lo sguardo da lui: potrebbe benissimo avventarsi su noi che stiamo davanti, totalmente inermi ed imbambolati, ed attaccarsi alla nostra giugulare per nutrirsi di sangue.

Dopo questo “trattamento” mi vado a rilassare un minimo a base di jamming psichedelico pesante (anzi, pesantissimo) con la coda del concerto dei Carlton Melton, immani, nella Green Room. Sarebbe stato meglio vedere l’intero set sin dall’inizio, perché la session speciale che faranno domani, all’Afterburner, è a cavallo tra Yob e Triptykon. Avevo però già visto in azione i Carlton Melton in un bel concerto “intimo” (eravamo in pochi) a Milano, mentre non avevo mai beccato i Tribulation. Quindi qualcosa bisogna pur sacrificare qui nell’offerta tentacolare del Roadburn. Invece sono sicura che non me la sento proprio di andare a vedere gli Old Man Gloom al Main Stage, e neppure gli Indian (con la coda per salire al Het Patronaat), tanto, prima della fine di stasera, ci penseranno i Grime a rintronarmi a dovere!

La temperatura mite e l’orario (sono quasi le nove di sera) invogliano a stare fuori all’aria aperta un po’, mangiare qualcosa, chiacchierare con l’ennesima birra in mano e guardare le bancarelle del merchandise tutte illuminate dai fili di lampadine gialle che, da una certa distanza, sembrano lanterne. L’atmosfera è così invitante che, finalmente, mi lascio convincere a comprare il nuovo mega cofanetto di lp con la riedizione dell’intera discografia dei Babylon Whores. Il cofanetto mi guarda da due giorni sulla bancarella della label Svart Records e, tra l’altro, qui costa la metà del prezzo on-line ufficiale. È pesante come una lastra di marmo ma d’ora in poi me lo porterò addosso orgogliosamente come farebbe un vichingo col suo scudo!

Poi ci si prepara per andare a vedere una delle attrazioni della giornata, l’ospite illustre: i Loop. La leggendaria band britannica, fondata da Robert Hampson a metà anni Ottanta, coniuga(va) l’immediatezza e l’aggressività di Velvet Undergound, Stooges ed MC5 con krautrock e musica sperimentale ed elettronica, creando un ibrido oscuro e gelido, che ha, tra l’altro, influenzato molte delle band che si sentono al Roadburn. I Loop sono stati resuscitati recentemente da Hampson stesso, il quale, nell’edizione del 2013 del Roadburn, ospite dei Godflesh, aveva annunciato il ritorno della sua ex band sulle scene per una serie di concerti tra il 2013 ed il 2014. Quindi eccoli qua. Nella luce fissa, bluastra o rossastra, senza troppi effetti, Robert Hampson sul palco suona staccato dal resto dei colleghi, muovendosi poco, impegnato a tessere i suoi riff riverberati. È artico, immobile e di poche parole, certo non un animale da palcoscenico, ma non importa: il grande salone del Main Stage è permeato da una musica affascinante che funge da macchina del tempo.

Prima della fine della performance dei Loop scappo verso il locale dove suoneranno tra poco i nostri mitici Grime! Il locale è piccolo, il pub Cul de Sac lì vicino e se non si va lì ben in anticipo si rischia di non poter entrare. Io invece voglio vederli bene! Era da sapere che dopo il lungo tour con i Cough e la partecipazione allo Heavy Days In Doomtown a Copenhagen nel 2013, i triestini non si sarebbero più fermati! E infatti eccoli qui al Roadburn, pronti per riversare il loro sludge metal putrido ed urticante, pescato a piene mani dall’album nuovo Deteriorate, sui tanti masochisti che intasano il locale, caldo in modo soffocante e puzzolente un po’ di birra e un po’ di urina. Certo, le altre sale del festival sono più belline, ma qui c’è atmosfera di degrado da vendere ed è quello che ci vuole per “calarsi” ancora di più nell’universo nero pece dei Grime. Siamo in un bel po’ a fare da supporter ai nostri, che non si risparmiamo, ma forse il fan in prima linea più gradito è Parker Chandler, frontman dei Cough e, come prima accennato, qui al Roadburn in qualità di bassista dei Windhand. E Parker è il primo che, a concerto finito, abbraccia con affetto sincero e pacche sulle spalle i ragazzi dei Grime, segno di un’amicizia costruita condividendo le peripezie dei tour e l’amore per la musica tritaossa. E poi però li abbracciamo anche noi!

La terza giornata è quasi finita, è mezzanotte, ma, volendo, c’è musica live ancora per un’altra ora e poi, per gli impavidi, il dj set per ballare. La stanchezza assassina mi fa desiderare di prendere un taxi ed andare a dormire. Però l’ultima ora offre di tutto e di più, dalle peripezie hard psych degli Harsh Toke (seconda esibizione) al retro-rock polposo (“pink metal”) dei Glitter Wizard, californiani pure loro, fino al metal slow and primitive dei finlandesi Horse Latitude e l’alienazione post-doom degli americani A Storm Of Light. Dai, non si può andare a dormire!

Harsh Toke e Horse Latitude vincono. Gli Harsh Toke finalmente hanno l’intero palco del Main Stage tutto per loro, liberi di lanciarsi nelle loro tipiche jam session lunghe, ipnotiche che puzzano (o profumano) di California anni 70 in modo inverosimile ed anche un po’ sfacciato. Sarà pure anche per l’aria fresca nel salone, un po’ per gli effetti di luce psichedelici vintage molto colorati, e un po’ per tutti quelli che fumano erba in sala (a quest’ora “osano”…), ma con gli Harsh Toke si sta benissimo! Mi divido equamente tra questi sballatoni di San Diego e gli Horse Latitudes, una delle mie band di doom-drone mastodontico preferite. La Green Room è intasata, ma la vibrazione sismica delle note scandite dai finnici arriva anche nella “periferia” della sala. Nonostante il loro nome derivi da una canzone dei Doors, gli Horse Latitudes non hanno niente della seduzione e della carica melodica di quella leggenda. Il loro doom è primitivo ed occulto-ritualistico, talora funereo, ma la sua essenzialità contrasta con la voce pulita, baritonale del batterista Harri, che, pure, milita nei Ride For Revenge, uno dei gruppi di black/death metal più interessanti della scena finlandese degli ultimi dieci anni. Ecco, la mia terza, intensa giornata del Roadburn Festival 2014, che era iniziata con i Noothgrush, non poteva che finire con una bella dose di doom primitivo! E si va a nanna contenti…

Domenica 13 aprile 2014 (Afterburner)

Morne

Ci siamo, è l’ultimo giorno di quest’intenso festival. Come mi era successo le altre volte, il tempo mi è volato e, nonostante la stanchezza, solo fisica, mi dispiace lasciare questo turbine musicale per tornare al tran-tran lavorativo. Scopro che anche tanti altri provano questa sensazione! L’Afterburner ha un programma più limitato degli altri giorni. Un bel po’ di gente è ripartita, sfruttando la domenica per il viaggio di ritorno (anche Oltreoceano), ma arrivano quelli che hanno comprato (o trovato) solo il biglietto domenicale. C’è quindi meno pubblico oggi e ci sono meno concerti, sì, ma gli organizzatori non si sono risparmiati. Il programma è molto vario e in più occasioni, per la sottoscritta, da bava alla bocca.

L’inizio della giornata è affidato ai francesi Aqua Nebula Oscillator nell’atmosfera raccolta della Green Room, anche se poco dopo nel teatro del Main Stage inizia un’esibizione dedicata al chitarrista olandese Selim Lemouchi. Selim e sua sorella Farida, la cantante, erano l’anima del gruppo occult doom rock The Devil’s Blood, molto apprezzata su scala mondiale e una delle attrazioni del festival nel 2008. La band si era sciolta nel 2013, ma nello stesso anno Selim aveva continuato con un suo progetto di psichedelia prog raffinata ed aerea, Selim Lemouchi & His Enemies. L’uscita del nuovo album a febbraio e l’invito, pieno di entusiasmo, al festival non facevano certo presagire che Selim ponesse fine alla sua vita a marzo. Colpiti profondamente, gli organizzatori del festival hanno pensato di rendere omaggio all’amico tormentato mantenendo in scaletta l’esibizione e, tramite Farida e gli altri musicisti che collaboravano con lui nel suo nuovo gruppo, organizzare un concerto in memoriam, eseguendo per intero l’album nuovo Earth Air Spirit Fire Water. Per quanto mi riguarda, resto ad assistere al concerto degli Aqua Nebula Oscillator, che placa la mia sete di space-psych rock pesante. Finalmente li vedo e, dopo averli ascoltati su disco per un po’ di anni, sento dal vivo il loro calderone psichedelico che trae energia ed ispirazione, senz’altro, dai “soliti” Hawkwind, MC5, 13th Floor Elevator, Jimi Hendrix, Blue Cheer e a palate dal krautrock, ma anche dal punk, dal metal grezzo, dal rock occulto, dall’LSD, dai film horror, dagli alieni… Che dire, spettacolari! Dopo il magma psichedelico dei francesi passo al Main Stage per seguire almeno una parte del tributo a Lemouchi, con tutti i musicisti coinvolti sistemati in semicerchio sul palco quasi a simulare un rito occulto. Però mi viene un po’ di tristezza e quindi preferisco tornare alla Green Room, svuotata, e sistemarmi sulla balaustra, perché fra poco suonano i Bölzer. I due, che vivono a Zurigo, sono qui al seguito dei Triptykon, principale attrazione dell’Afterburner, e rappresentano l’ennesima dose di death metal che il Roadburn ci somministra quest’anno. Vedendo come si accalca la gente nella sala si capisce che queste “pillole” di qualità sono molto ben gradite al popolo del festival! I Bölzer sono una delle molte ottime band nel roster dell’etichetta tedesca Iron Bonehead Productions e sono tra quelli che amano sadicamente far uscire la loro roba a piccole dosi, tramite ep. Uno all’anno: non molto produttivi, quindi. Diciamo che con loro conta la qualità di uno stile old school a cavallo tra Celtic Frost dei primordi e death metal americano. Inoltre il chitarrista-cantante è anche coinvolto in un’altra band death metal emergente e degna di nota, Deathcult, e soprattutto dal 2013 ha cominciato collaborare niente meno che con uno degli astri black-death della scena neozelandese, i Witchrist. Il loro concerto è, come previsto, impeccabile, come può essere impeccabile il death metal caustico, scarno ed assordante, furia cieca e scevra da virtuosismi, capace di annientare un fischio fastidioso legato ad un problema tecnico non risolto in tempo prima dell’inizio. Se non li avete già visti, nel frattempo, in una delle molte date europee (ed extra-europee) di quest’anno, li potrete vedere durante l’ultimo capitolo del Killtown Death Fest a Copenhagen (inizio di Settembre 2014) e al black metal festival Helvete Underground a Ginevra (inizio di ottobre 2014). Noi di The New Noise dovremmo essere presenti ad entrambi gli eventi.

Dopo i Bölzer evito accuratamente il Main Stage e, soprattutto, i lamenti emessi dalla cantante degli Avatarium, nuovo progetto doom epico di Leif Edling (Candlemass). Colpa mia, non sopporto quel tipo di canto iper-melodico femminile in generale, ancora meno se abbinato a qualunque tipo di metal. Vado invece ad esplorare l’area merchandise trasferita nella sala della ex-Bat Cave (ora Stage01) e nel corridoio vicino. In tanti abbiamo la stessa idea, un po’ per razzolare nelle scatole, piene di “chicche”, dei rivenditori di dischi (meno male che è l’ultimo giorno!), un po’ per guardare ancora una volta con calma la roba delle band che hanno suonato ieri sera tardi (ad esempio gli Horse Latitudes). Poi però ad un certo punto del pomeriggio sul tavolo dei Triptykon viene messo in vendita il nuovissimo album, doppio lp, in edizione limitata. C’è la fila!

Prima dei Triptykon, però, c’è il secondo concerto degli Yob, una delle band più amate del festival e, come già detto, anche più generose e disponibili a suonare sia per la massa dei tre giorni monumentali del festival sia per chi è riuscito solo a trovare il biglietto per le “briciole” dell’ultimo giorno. Briciole per modo di dire … Gli Yob, di nuovo, non si negano al pubblico che intasa il Main Stage e regalano un’esibizione di doom polverizzante fatta sia di pezzi presi dai vari album della discografia sia di roba nuova dall’album Clearing The Path To Ascend, previsto in uscita a fine agosto. Insomma, un evento da non mancare.

Dopo gli Yob, ormai dopo le otto e mezza di sera, è tempo di ricaricarsi con un po’ di cibo, bibite fresche e, sì, anche caffè, perché c’è ancora un bel po’ di carne al fuoco che ci aspetta. Sacrifico quindi la coda del concerto dei New Keepers Of The Water Towers e mi preparo spiritualmente al concerto dei Triptykon. Il Main Stage è pieno all’inverosimile. Ma riesco a trovare un angolo decente, vicino ad un bocchettone dell’aria condizionata e a dei gradini dove sedersi ogni tanto (la stanchezza incombe…). Ed è boato non appena entrano sul palco i quattro capeggiati da Thomas “Warrior” Fischer, o Thomas G. Warrior che sia. Eccolo lì, in trench, con il suo berrettino nero (di lana?) calcato sulla fronte e, sotto, una massa di capelli lunghi e ribelli biondo-grigi ed un accenno di corpse painting. In rete ci sono tanti scherzi e battute sul berretto onnipresente sulla testa e sulla faccia arrabbiata di Thomas Fischer in questi anni, passando dal gattino malmostoso di Facebook fino ad un foto-ritocco irriverente che rivela una presunta calvizie profonda. Sia quel che sia, anche se Thomas Fischer venisse a suonare col parrucchino rosso carota, noi saremmo contenti lo stesso. Il concerto dei Triptykon, il terzo o il quarto che vedo, è da paura: si va da vecchi brani che erano stati presentati in anteprima proprio qui al Roadburn qualche anno fa, fino a pezzi dall’album nuovo, Melana Chasmata, come sempre adornato dall’amico artista Giger, scomparso da poco. E poi, per forza, e per fortuna, la scaletta di oggi prevede anche cover sia di Celtic Frost che di Hellhammer. Mica fatti da una band qualunque, ma da Mr. Hellhammer e Celtic Frost in persona. Il massimo!

Sarebbe perfettamente lecito e soddisfacente chiudere la giornata così, con l’esaltazione che dà questo concerto. Ma l’offerta del Roadburn non è avara di sorprese e/o di performance eccellenti e non solo da parte degli “ospiti illustri”. Infatti dopo un po’ di riposo e di aria fresca scambiando le ultime chiacchiere con gli amici incontrati al festival, andiamo a vedere l’intero concerto dei Morne. Mi erano piaciuti molto quando li avevo visti, non certo in condizioni eccelse per l’acustica, vicino a Milano alcuni anni fa. Ma stasera la bravura di questo quartetto americano, di Boston, è meritatamente valorizzata ed esaltata dalla qualità del suono magistrale del Main Stage. E, se è possibile, assistiamo ad uno dei concerti al top di quest’edizione del festival. I Morne interpretato lo sludge in modo personale con un approccio progressive, talora post-metal (il giusto), ma introducendo in modo naturale anche hardcore anni Ottanta e crust, in modo da rendere le loro composizioni variate e coinvolgenti nonostante la lunghezza. Il pubblico è affascinato dal flusso di energia che emana dal gruppo e specialmente dall’interpretazione intensa del cantante-chitarrista Miłosz Gassan, bravissimo, alle spalle una carriera di militanza nella scena crust polacca.

Alla fine manca un quarto d’ora a mezzanotte. Ora di andare a dormire, visto che poi il giorno dopo c’è la levataccia di rito per andare a prendere l’aereo. Ma passando accanto alla Green Room è impossibile ignorare i Lumerians! Non li conoscevo e non avevo fato in tempo ad informarmi, ma all’inizio sono stata letteralmente catturata dal loro look! Cioè, pensavo di avere le traveggole mentre sullo stage poco illuminato da giochi di luce fioca e verdastra vedevo agitarsi delle figure ammantate di bianco con maschere, mal distinguibili, ma con lucine verdi al posto degli occhi. Sembrava di vedere una band di sabipodi usciti direttamente da Guerre Stellari! Però la performance visual originale non era ovviamente l’unico motivo della presenza di questa band di San Francisco al festival. Questi strani figuri ammantati stregavano e divertivano il pubblico con cariche di space psichedelia ibrida un po’ kraut elettronica, un po’ hippy beat, un po’ new wave. Mi facevano venire in mente un incrocio tra i Wooden Shjips e i Kraftwerk! La sorpresa dei Lumerians ha chiuso il festival a mezzanotte, ed a mezzanotte abbiamo tutti preso le nostre scope e ce ne siamo andati, felici e contenti, già fantasticando su come sarà l’anno prossimo.