Inchiuvatu (Agghiastru): dalla “biunna” alla sperimentazione anti-accademica (con tutto quello che può starci nel mezzo)

Come già anticipato ieri, gli Inchiuvatu (pagina Facebook – sito di Inch Productions) saranno tra i protagonisti del prossimo Frantic Fest. Incuriositi dalla notizia abbiamo deciso di approfittarne per incontrare Agghiastru e farci raccontare direttamente da lui cosa aspettarci e soprattutto fare un po’ di luce su uno dei nomi storici della scena black metal nazionale. È stato un piacere trovarsi di fronte un interlocutore capace di andare ben oltre le semplici risposte di routine per spaziare sui temi più disparati. A questo punto aspettiamo di vederlo in azione al Frantic per scoprire come la sua proposta si inserirà in un contesto per lui a dir poco particolare. Buona lettura.

Iniziamo con un po’ di storia. So che non ami parlare del passato, ma vorrei dare ai lettori meno attenti un minimo di coordinate per comprendere il tuo percorso. Ricordi quando e come ti sei avvicinato al metal e in particolare quando è nata l’idea di unire questa musica alle tradizioni e alla storia della tua terra?

Agghiastru: Mio padre era uno dei tanti pretendenti di mia madre. Lei era molto bella e contesa, è raffigurata nei due dischi di Agghiastru Incantu e Disincantu. Mio padre, però, a differenza degli altri più o meno bifolchi con o senza soldi, era solito suonare la fisarmonica nei sabatini del villaggio. Questa cosa convinse lei, ma anche i miei nonni di provenienza agricola, che la musica potesse elevare il rango della famiglia. Mio padre era il classico siciliano capace di immaginare i pesci vivere fuori dall’acqua e gli umani nelle profondità marine. D’altronde diceva: “Noi ci stiamo avvicinando sempre più al mondo subacqueo, e ti assicuro che ci sono pesci più intelligenti di certi uomini che hanno anche il cattivo gusto di non imitarli i pesci; parlano troppo!”. In una sorta di competizione, già a 6 anni, mi comprò una pianola per vedere cosa sapevo fare. Il mantice della fisarmonica era sinceramente troppo pesante per il mio corpo pelle e ossa. Da lì iniziai a suonare allegramente un po’ tutto il repertorio ecclesiastico. Mio padre, sentendomi, smise di suonare, riconoscendomi di fatto del talento.

A 10 anni, nel quartiere di San Michele, con un amico che prendeva lezioni di chitarra classica, spulciavamo i libri dello zio: Byron, Rimbaud, Baudelaire. Ovviamente senza capirne il senso profondo e, scoperta la masturbazione, abbandonandoli del tutto. Tuttavia il clima era stimolante e, con l’arrivo dei Righeira, la musica ridivenne centrale nella mia vita. A 15 anni, il fratello di mia madre mi passo il Vol 4 dei Black Sabbath, lui li vide live a Roma nello stesso anno durante il militare, mentre un amico napoletano mi passò il vinile dei Venom. Cominciammo a capire meglio i maudit. Tutto intorno a noi era un suonare musica italiana di qualità, cantautorato serio, e poi pregevolissimo prog anni ‘70. Imparai a consumare musicassette di Banco, Balletto Di Bronzo, Le Orme e leggere Nietzsche. Teatralmente c’era il carnevale che ci stimolava a scrivere copioni e musiche originali. Insomma, a 20 anni nel 1995, studiando Picasso, Piero Pelù e Pirandello, avevo già scritto e registrato tre quarti della mia musica. Scrivevo, non era necessario avere un nome o una band. Probabilmente nel 1993, prima col nome Tenebra e poi come Inchiuvatu, nacquero i brani di Trinaka, potremmo chiamarlo il primo demo. Riguardo al perché unire black metal e tradizioni sicule, direi che è stato un gesto naturale dovuto all’imponenza della cultura dell’Isola, come puoi sottrarti?

Tra tutti gli stili e i sottogeneri metal, il black ha sempre avuto un legame speciale con i luoghi d’origine dei musicisti che lo seguono. Penso, a parte ovviamente alla Norvegia, ai rumeni Negură Bunget, ai lituani Poccolus, ai lettoni Skyforger, agli irlandesi Primordial e così via, tutte band che sono riuscite a unire la loro passione per il metal estremo alle proprie radici. Ti sentivi al tempo in qualche modo parte di una visione comune o, se vogliamo usare questo termine, di una scena globale?

Non ci sono mai state né una visione comune né una scena globale. Nel 1995 incontrai a Roma Ribeiro dei Moonspell con il nuovo Wolfheart fuori, gli feci ascoltare il mio promo che di lì a poco sarebbe diventato Addisiu. Gli parlai di questa idea, ma non credo capii bene il senso di una visione mediterranea che potesse abbracciare il bacino sud-europeo. Eppure c’era già in giro gente greca come i Nightfall, Rotting Christ o gli Orphaned Land, ma in fondo perché creare qualcosa come una scena? Decisi di crearla io, arrivano così fino in fondo ai miei cassetti pieni di idee. Musica che, ovviamente, spaziava dal folk siculo al black metal, ma da un punto di vista più ampio che abbracciava anche il prog, il cantautorato, e persino i Pooh.

Come ti sei mosso per affinare il tuo modus operandi agli inizi e come credi sia cambiato questo approccio durante gli anni?

Nel mio paesino l’unico modo per venire a conoscenza di quel che stava accadendo nel lontanissimo continente, era in potere alla biunna (bionda). La bionda era un’avvenente signorina felliniana che gestiva un’edicola. Se la bionda consentiva l’arrivo di alcune riviste di settore, allora noi conoscevamo questa deriva musicale chiamata metal. Al tempo, sempre per volontà della bionda, era consentito che arrivasse Metal Shock che, pur essendo un quindicinale, da Lei, arrivava mensilmente. Pazienza, sia comunque lode e onore alla bionda. Fu un po’ per gioco che, scoperto sul giornale il lato “demo fai da te” da inviare in redazione, pensai di incorniciare in un nastro ferro-cromo alcune cose estemporanee che un po’ mimavano le movenze di primi Death SS/Paul Chain e Deicide, band questa conosciuta grazie ad un altro strambo personaggio dedito all’acquisto di roba splatter anni ‘90. Ci ritrovavamo davanti al negozio di un nostro amico ceramista e al tempio della sapienza, l’edicola della biunna. Quel giorno eravamo in dubbio se comprare Fermo Posta o Metal Shock, poiché al primo del mese era pervenuto quello della quindicina precedente. Su Fermo Posta invece avevamo messo un annuncio per creare un divertissement con quello che oggi chiameremmo una qualche milf della provincia, ma cedemmo alla musica. Inviai la cassettina e ricevette recensioni entusiastiche. Da lì tutto ebbe inizio, recensione dopo recensione, intervista dopo intervista, concerto dopo concerto. Ancora oggi mi chiedo se non sarebbe stato il caso di prendere Fermo Posta.

Mi piacerebbe soffermarmi proprio sull’evoluzione del tuo stile e sul processo che ha portato dalle prime uscite, agli album realizzati nella seconda metà dei ’90, a ciò che è successo nel nuovo millennio e, nello specifico, all’uscita dei cinque ep. Ti ritrovi in questa sommaria divisione del tuo percorso in parti distinte o preferisci considerare il tutto un fluire all’interno di un processo unitario?

Caro amico di sventura, in primo luogo devi considerare l’aspetto goliardico con cui tutto è nato. In secondo, che io non sono un metallaro. Nei primi ‘90 pensavo già di abbandonare la scuola d’arte e il conservatorio. Ero in grado di comprendere che la musica o l’arte sono un mezzo per arrivare alla conoscenza di sé e per conseguire tale scopo occorre spogliarsi di qualsiasi struttura. Scrivevo, buttavo giù idee senza una linea precisa, anzi, pensavo fosse tutto orpello, ornamento. Quando nel 1993 cominciai a conoscere il black scandinavo, lessi la cosa accostandola ai primi fauves. Avevamo tutti l’intento di abbandonare l’accademismo e contrapporci a dei precetti sociali contestabili, ossia al catto-borghesismo. Per quanto facessi emergere qualche influenza death americana, la vera volontà era di comprendere chi fosse l’uomo, il siciliano e dunque il musicante. Considera che imperava l’inglese, e fu naturale ribellarsi emancipandoci da tutto cantando nel nostro dialetto. Noi volevamo esprimere un “rifiuto” che, sembrava, i norvegesi avessero compreso. Successivamente ad Addisiu e Viogna, tutto divenne più inquadrato, delineato, probabilmente pilotato. Ma il genere già a fine anni ‘90 declinava verso la fine. Nel nuovo millennio, e quindi con album come Piccatu e Miseria, ho sposato una volontà di aggregamento al movimento generalista del black metal. Suoni più mainstream, ritmiche più identificabili col resto del mondo metal. Vedi, io faccio coincidere la fine del movimento “vero” black metal con il passaggio di alcune band dall’etichetta francese Osmose a etichette più blasonate come Century Media o Nuclear Blast. Per quanto mi riguarda, dunque, il metal estremo poteva benissimo chiudersi nel 2008 con mio notevole ritardo. Dal 2009 al 2017 cercai di spostare l’attenzione alla sperimentazione pura dell’esordio. Si può contaminare ancora questo genere fuori da qualsiasi genere, anti accademico? Ecco la pentalogia di ep di Inchiuvatu alla quale accennavi.

Quale è il filo comune (o concept) che unisce gli ep 33, Ecce Homo, INRI, Via Matris e Via Lucis? Seppure differenti da un punto di vista musicale e ciascuno con delle sue caratteristiche precise, sembrano rappresentare i tasselli di un disegno unico e collegato.

Il filo comune è ritornare a sperimentare come ai tempi di Addisiu e Viogna, ma non rinunciando ad osare. Tra il 1995 e il 2005 c’era la spasmodica corsa al miglioramento dei suoni, quando invece ciò che ha reso grande quel genere scandinavo era proprio il caos senza criterio ingegneristico. La parola underground, contrapponendosi agli americani di Tampa Florida, aveva un senso. Poi si sono svenduti tutti. Nella mia pentalogia ritornai a registrare con un 4 piste. Minimale, underground, buona la prima. 33 del 2008 ha la caratteristica di suonare con una drum machine base, suoni scarni, niente editing. In Ecce Homo portammo una batteria del 70 degna per la discarica, in aperta campagna. Registrammo lì in diretta, en plein air come i fauves, quel che veniva. Un po’ sulla scia degli Ulver. Con INRI sferzai in favore di sonorità più rock, acide. Niente programmazione. Avevo in testa i Velvet Underground. Misi Tati (una mezzosangue savoiarda dalle discutibili doti batteristiche) ai tamburi come Maureen Tucker, le dissi “tieni il tempo”. Fine. Poi pensai che era ora d’immaginare il black metal canonico espresso in una cavea greca, in assenza di elettricità. Via Matris è il primo lavoro del genere: black metal acustico. In fine, Via Lucis, rimaneva da sondare la parte a cappella. C’inventammo di mimare gli strumenti con la voce e di giocare su sonorità inchiuvate ma in chiave surf, punk, noise, psichedeliche, post-rock (parole a caso di cui conosco vagamente il significato, dadaismo, appunto).

La Sicilia è stata crocevia di culture, religioni e tradizioni, penso in particolare alla Magna Grecia e all’impatto della filosofia greca, ai continui scambi con il mondo arabo, ai Normanni, ma anche alla cultura cattolica sul forte impatto che ha avuto sulla vita e sulla società siciliana. Del resto, gli stessi titoli della “pentalogia” richiamano in modo diretto la religione cristiana. Ti va di esporci la tua posizione a riguardo?

Non ho idea di cosa sia la Sicilia, ma posso dirti di chi sono io in quanto siciliano. Io sono greco, vacci piano col caricarmi di questo o quello… Il mio dialetto non ha niente a che vedere con la tradizione araba o giudaica. Il dialetto che uso io è frutto di studio, indagini strettamente familiari. Un trentenne di oggi, del mio paese, difficilmente comprende quel linguaggio. Il mio dialetto è fonetico, costruito per fluire sulla musica come uno strumento. Attento ad elevare l’onirico e non il mondo immanente (agricolo, sociale, marinaresco). L’impianto è comunque latino. Abbiamo molto più in comune coi normanni, per via del latino, che non coi popoli semitici. Siamo indoeuropei. Si fa spesso parecchia confusione, propaganda, occorrerebbe fare chiarezza, ma sembra essere un periodo in cui la storia la si scrive e racconta per evitare questioni di mala integrazione. Io sono greco. Non saprei definirmi diversamente. E, andando ancora più indietro sarei anche indiano, maharaj mi è testimone. Per via dell’avvento del monoteismo, la più grande sciagura per l’umanità post greco-romana, chiaramente siamo “nati” cristiani. Ci violentano col battesimo, ma poi grazie al cielo si studia e si cresce. Mi sono sbattezzato intorno ai 20 anni. Basta fare una raccomandata alla propria parrocchia e abbandoni con tanto di annotazione Santa Romana Chiesa. L’influenza di Cristo, beh, è una figura irrilevante. Quelli che hanno veramente cambiato i nostri usi e costumi, contribuendo al proselitismo globale, sono ovviamente Paolo e poi Agostino. I titoli della pentalogia partono dalla figura di Cristo, ma non hanno niente a che vedere con lui poiché m’interessava sinceramente parlare dell’uomo di Diogene, di me. Argomentare di questo “me”, io, significa ovviamente tirare in ballo Plotino per quanto riguarda ciò che di greco è transitato poi nella fantomatica figura di Cristo. Ma credimi, a parte il rifiuto dei precetti malevoli, diseducativi, inquietanti del cristianesimo, espressi graficamente con croci rovesciate, pentacoli, e figure amene e demoniache, Inchiuvatu è riferito all’incapacità dell’uomo di trovare un senso all’esistenza, per cui all’ atteggiamento filosofico dello scetticismo caro a Pirrone. Poi a Hume, fino al nichilismo contemporaneo, se così si può dire… Poi occorre parlare di teologia per capire bene i miei album, aver consumato gli occhi sugli scritti di Kant e la confutazione di Dio… ma mi stai chiedendo di parlare di filosofia?

Per quanto concerne, più in generale, il tuo profondo legame con la Sicilia, quali sono per te gli elementi che rendono unica la tua terra tanto e ne connotano il carattere, in fondo quelli che sono diventati parte integrante di te e del tuo modo di porti come persona e come musicista?

Sai, spesso mi capita di sentire al caffè gente che, orgogliosamente, tira in ballo illustri siciliani, come se l’appartenere ad uno stesso luogo facesse sì che parte della cultura di un Pirandello scorresse in fondo nel tuo stesso sangue. Penso che la gran parte dei siciliani non sappiano nemmeno chi sia Pirandello, altrimenti a ritroso presumo che dovrebbero conoscere Heidegger, Gentile, Croce e ovviamente Nietzsche e Schopenhauer, questo giusto per inquadrare il concetto base di maschere o di Uno nessuno centomila. E non tiriamo in ballo i greci… perché poi lo stesso ameno siciliano, sempre al bar, è anche orgogliosamente siculo-greco. Come se di riflesso, stando gomito a gomito con un centenario, arrivassi anche tu a quella età… non credo proprio. Penso che l’essere orgogliosamente siciliani abbia a che fare con queste conoscenze. No, non credo che la Sicilia sia una terra unica. I siciliani si fanno i cazzi loro da secoli, campano, che è diverso dal vivere. Ogni luogo di per sé è un luogo, poi il genio viene fuori per altre circostanze. Diversamente in Toscana sono tutti poeti o pittori? La Toscana è una parola che indica confini che uomini con le mani sporche di sangue hanno creato. La Sicilia è una terra mitica perché pochissimi uomini in un dato momento storico, hanno creato qualcosa di illuminante. Prima a Mileto, poi a Siracusa, poi ancora a Roma, e grazie ai Medici a Firenze, e via dicendo, questo è il nostro Occidente. Ripeto, pochissimi illustri uomini siciliani (ai quali il tizio del caffè apparirebbe come un miserabile senza né arte né parte, il quale gode di qualcosa che non gli spetta certo per diritto territoriale) hanno reso mitica questa Isola. Chi vive nell’affanno, nell’ignoranza, nella mediocrità, è solo un volgare arrogante che si permette di sporcare la memoria di queste altezze. Io nel mio piccolo ho sempre provato vergogna per le mie cose artistiche, ritenendole non meritevoli d’attenzione alcuna. Mi sono sempre definito un musicante e mai un musicista. Ma so di poter e dovere, con estrema umiltà, anelare allo spirito creativo di questi pochissimi siciliani, siano essi greci o post-pagani. Gli altri si vergognino solamente di quel che fanno, sono e rappresentano di fronte alla Storia.

Sotto un profilo musicale, il tuo percorso appare permeabile a differenti suggestioni e frutto di una mentalità decisamente aperta e curiosa. Dovessi disegnare una mappa di ciò che più ti ha ispirato e di cosa è riuscito ad attirare la tua attenzione tanto da diventare parte integrante della tua formazione come musicista, quali sarebbero gli artisti e i dischi fondamentali?

Non dischi, proprio perché parli di curiosità cito sempre Picasso. Lui non era un pittore, uno scultore, un ceramista, era uno sguardo lungo la voluntas schopenhaueriana. Picasso rendeva immanente la rappresentazione onirica della sua coscienza e poi la riversava nella “realtà”, qualsiasi cosa toccasse. Ho preso lì le mie influenze, o meglio, ho imparato cosa significasse osservare. Duchamp, Burri, prima ancora Raffaello e tutto il Rinascimento, questi erano neoplatonici, non lo dimenticare. I Pink Floyd non facevano dischi, rendevano percepibili le loro speculazioni mentali. Quando davanti all’opera d’arte si percepisce la vertigine dell’estasi, tutto trascende, così come l’opera stessa diventa ininfluente: è l’artista l’opera stessa. Studiate gli artisti e poi le opere. Picasso creava qualcosa di magico anche solo respirando. Ambisci a questo.

Continui a seguire la scena metal estrema odierna? Come ti poni nell’eterna disputa tra gli assertori di un’epoca d’oro che non potrà più tornare e chi, al contrario, continua a sostenere e seguire con curiosità i suoi sviluppi e le sue nuove derive?

Non seguo la scena metal estrema odierna, pur conoscendo interessanti progetti come Oranssi Pazuzu, Hail Spirit Noir, Botanist, Sur Austru ex Negură Bunget, i nuovi Feralia, Black Flame, Opera IX, c’è tanta roba interessante in giro ma, secondo me, nulla a che vedere con l’epoca d’oro. Il “black metal” nasce e muore nel periodo che va dai primi ‘90 alla fine del decennio. Poi diventa business, merce, oggettume. Lo spirito primordiale, anarchico, fai da te, che si respirava in quegli anni, e ti lascio immaginare da un posto remoto come l’Isola, non potete minimamente immaginarlo. Così è stato per il punk, il glam, il grunge, heavy metal classico, l’operetta, il minuetto, il blues del delta, il prog. Insomma, nascono fenomeni artistici musicali per una coincidenza storica, sociologica, esistenziale, poi le urgenze mutano e muore la ragione sociale per la quale nasce un movimento. Chiameremmo ancora esistente il Rinascimento se dei bravissimi pittori toscani si esprimessero con quei canoni? No, sarebbe tutt’altra cosa, per quanto con un riferimento evidente al Quattrocento. Allora forse potremmo volgarmente chiamare tutto “post”, post quello, post questo. Sentire ancora buoni dischi. Scoprire ancora nuove band, ma l’istanza per la quale si è verificato in quel contesto storico (senza internet, giusto per ricordare un particolare da niente) è irripetibile. Mi appare poi ridicolo il ragazzino che scoprendo l’amabile musica degli anni ‘70 si vesta col pellicciotto tutto peace & love. Mi appare datato e fuori luogo il ragazzetto con una spilla da balia in bocca e una cresta sulla testa. Mi appare quanto mai disarmante vedere un’estetica truce e borchiata che non ha alcun fondamento storico né qualitativo. Sei anacronismo puro amico. Vuoto assoluto. Quello che invece ho cercato di dire con Inchiuvatu è proprio questo: quale che sia il tuo luogo di origine, periodo storico, ceto sociale, inventa. Sii originale, scopri te stesso e rendilo stabile. Anche riprendendo elementi della “tradizione” ma interpretati in modo personalissimo. Inchiuvatu è stato anche un atto politico. Sii te stesso, sempre e ovunque.  Fai scelte originali. Vivi non seguendo il gregge. Vivi unicamente poiché tu sei unico.

Ad agosto sarai ospite del Frantic Fest. Com’è nata questa collaborazione e cosa dobbiamo aspettarci dalla tua esibizione. Hai già in mente una scaletta e la veste coreografica/visiva che darai al concerto? In generale, come ti poni rispetto alla rappresentazione live della tua musica, visto il suo forte impatto per le atmosfere e l’immaginario coinvolto?

Non ho idea di cosa sia il Frantic e non mi piacciono affatto i festival. Detto questo, aggiungo che non avevo alcuna voglia di fare spettacoli, almeno nell’immediato. Se Inchiuvatu in qualche modo si sta mettendo in movimento è unicamente responsabilità di Ale dei Feralia e di un altro manipolo di perditempo torinesi. Precisato anche quest’altro, ti dico che il concerto in sé non m’interessa minimamente, infatti ultimamente parlavo di show, di spettacolo che avesse in sé un’urgenza teatrale, sperimentale. Mi è stato garantito uno spazio particolare all’interno del festival dove, tra l’altro, l’orario è una delle cose che lede l’esecuzione. Ma ecco il punto maggiormente dolente della cosa: detesto l’idea consolatoria che oggi investe l’arte, la musica, lo spettacolo. Se venire a vedere Inchiuvatu equivale ad una distrazione dalla tua squallida vita, ad una puntata di una stupida serie tv che guardi solitamente, alle tue interessanti chattate su Whatsapp, ai tuoi stupidi commenti sui social, alle corna che vai facendo a destra e a manca a tuo marito o moglie, insomma resta a casa. Non penso che questo sia un pubblico per me stimolante. Inchiuvatu nasceva per creare una critica pura rivolta a sanzionare un modello di vita sociale/religioso malevolo, per poi edificarne uno culturalmente più maturo. Con lo sguardo lungo che arrivava in Grecia, all’Italia anni 70, con la sensibilità di sondare tutta l’arte conosciuta, e così anche l’elitaria musica black metal. Sto esagerando? Probabilmente sì. Ma se andare ai festival equivale a farsi una vacanza, un modo per spezzare la routine, tenere attiva la vostra libido… vedere che il tizio di “Cristu Crastu” c’è ancora, come ancora esiste nella tua mente Babbo Natale, be’, non mi entusiasmo per niente a fare tutti questi chilometri per gente e spirito simile. Lasciate stare.  Se invece mi ritrovassi davanti gente con qualcosa da raccontare originale, sapiente e per nulla disattenta e schiava della contemporaneità, allora presenterei uno show stimolante: faremo tutto Addisiu, ma facendo trapelare le dinamiche che mi portarono a scrivere quell’album per certi versi enorme. Perché Addisiu è tutto e il contrario di tutto. Ci sarà spazio per il teatro, per un sincretismo che abbraccia altre tradizioni. Dal teatro kabuki ai mamuthones sardi. Dall’Afghanistan alle prefiche sicule. Sto esagerando? Sì, perché probabilmente il tempo non lo consentirà, allora forse arriverà solo la fragranza di quel che ho in mente… ma mi auguro di cuore che sia, per i pochi che mi aspettano, propulsiva e non consolatoria.

Grazie mille per il tuo tempo, chiudi pure questa chiacchierata come preferisci e aggiungi ciò che credi avrebbe meritato spazio e non abbiamo trattato.

Ho tanto tempo, non temere. Non ho internet se non per controllare qualche email e gestire al minimo le attività musicali. Niente social, niente smartphone. Sai quanto tempo spreca la gente comune? D’altronde mi chiedo chi può mai esser arrivato oltre la terza riga di questa intervista. Potevamo organizzare un’intervista fotografica. Tu facevi domande corte, io rispondevo facendo faccine diverse: stupore, triste, rabbia, felicità. Mi chiedo perché perdere tempo a mandare i figli a scuola, insegnare loro a leggere e scrivere, salvo poi trovarci in una società analfabeta che comunica a disegnini. Conosco anche la risposta, ma te la evito. Vedi, sono un vecchio che passerà gli ultimi anni della sua vita a criticare qualcosa che di per sé era evidentemente al tramonto già nei primi del ‘900. La cultura occidentale ha di fatto nel nome la sua vocazione. Dunque, come possiamo concludere… Riguardo agli spettacoli di Inchiuvatu o di Agghiastru, se ne avrò voglia e modo, posso dirti che, ad esempio Inchiuvatu, ho pensato di poterlo esprimere con 4 diverse modalità. Una potrebbe essere quella con la band metal canonica. Un’altra in chiave puramente acustica. Piano, chitarra, percussioni. Un’altra, sarebbe il caso dell’album Viogna, con la drum machine. Ricordo che lì proprio a Pescara suonammo nel lontano 1998 con un Teatrino dei Pupi e la batteria elettronica. Un successo. Un’altra faccia di Inchiuvatu live sarà sicuramente quella che guarda all’anima più rock risalente alla pentalogia. In trio, basso, chitarra e batteria. Gli ultimi show supportavano quei lavori. Di sicuro non mancherà mai l’aspetto teatrale, comunicativo, e non-consolatorio. Speranza, consolazione… sono termini legati alla cristianità: noi siamo secolarizzati, non abbiamo bisogno di pacche sulle spalle ma di ritrovare in noi lo spirito Romantico.